Vieni, Signore Gesù

Omelia in occasione della festa di San Benedetto nel 1000 anniversario di fondazione del Monastero di Camaldoli
11-07-2013
 Monastero di Camaldoli,
11 luglio 2013
Monastero di Camaldoli
Eccellenza, Priore Generale
Autorità
Cari Monaci di Camaldoli
Cari Fratelli e Sorelle nel Signore
Sono lieto di partecipare alla festa della vostra famiglia che celebra il Millenario della Comunità Camaldolese proprio nella festa liturgica di san Benedetto, Padre del Monachesimo occidentale, Ispiratore di civiltà e Patrono d’Europa. La storia è nota: le strade della divina Provvidenza hanno condotto in questi suggestivi luoghi – il “campo di Maldolo” – i primi monaci guidati da San Romualdo, e qui vissero nella luce della regola benedettina rivisitata attraverso il dialogo fecondo tra l’esperienza dell’eremo e la comunione del cenobio.
Il primo senso dell’anniversario è dire grazie a Dio, datore di ogni bene, per questa storia che continua nel cuore della modernità. Grazie da parte mia e dei Vescovi italiani, perché questo luogo ha segnato la vita della nostra Chiesa e del Paese. Perché continua ad offrirsi come tempo di solitudine, di preghiera, di dialogo fraterno, di formazione: le celle dell’eremo, infatti, il cenobio, gli spazi di accoglienza, disegnano la vocazione e il cuore di Camaldoli. Arrivando qui, la prima cosa che colpisce l’uomo contemporaneo, spesso inquieto e cercatore di assoluto, è la proclamazione della presenza di Dio, è toccare il suo “mantello”, è ricevere l’olio sulle ferite della vita e gustare il vino della speranza.
Vorrei, nello spazio ragionevole dell’omelia, dire qualche parola su tre valori che sono alcuni elementi dell’ impasto fecondo della vita monastica: la preghiera, l’accoglienza, l’umiltà.
1. La preghiera
La preghiera è il luogo per eccellenza della gratuità, il campo dell’invisibile, spesso dell’insensibile, dell’inatteso. Ma, voi lo sapete, è sempre il luogo della Presenza! Il monaco sceglie di fare della sua vita una preghiera e della preghiera la sua vita, e per questo non si arrende mai anche quando, come la sposa del Cantico dei Cantici, si aggira nella notte per cercare lo sposo che si nasconde, e sente che il vuoto e il silenzio che lo circondano sono pieni di Cristo: e quando non lo sente, lo sa grazie alla luminosa oscurità della fede. Il monaco entra nel profondo del suo cuore che contiene Colui che l’universo non può contenere e, accogliendo la sua propria piccolezza, incontra l’Infinito che si concede ai poveri e agli umili. Quanto più s’immerge nello sguardo di Cristo – ricorda Papa Francesco – tanto più impara a guardare il mondo “dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi” (Lumen fidei, 18). “Quando tutto il tuo amore, tutto il tuo desiderio, tutta la tua ricerca (…) tutto ciò che respiri non sarà che Dio” – scrive San Giovanni Cassiano (Conferenze Spirituali, X conf., II parte) – allora l’anima conoscerà la gioia incomparabile della preghiera continua, che i Padri del deserto e i Maestri dello spirito indicano come desiderato orizzonte.
2. L’accoglienza
Dio si è fatto uomo perché nell’uomo scopriamo Dio. Per questo, accogliendo gli uomini, troviamo Dio, ma a condizione che ci lasciamo trovare da Lui ogni giorno. Altrimenti, gli altri in noi non troveranno Dio ma solo noi stessi – troppo poco! – e noi, negli altri, non scorgeremo i volti del Volto di Dio, i riflessi dell’icona di Cristo, ma solo il nostro riflesso.
Garanzia e misura della autenticità della nostra accoglienza non è l’ospite di passaggio, ma il
fratello di casa. Solo una fraternità unita, infatti, è in grado di accogliere il viandante che bussa, e servirlo senza servirsene. I fratelli della comunità sono i primi pellegrini che ci chiedono ogni giorno di essere accolti nel nostro cuore, e amati come sono non come vorremmo che fossero: “Nell’incontro con gli altri lo sguardo si apre verso una verità più grande di noi stessi” (Papa Francesco, Lumen fidei, 14). Per questo la fraternità è la prova che nella preghiera incontriamo Dio e non noi stessi, ed è condizione per ogni vera ospitalità. La vergine Maria, dopo che Dio le ha annunciato il mistero, si mette sulla strada verso la cugina Elisabetta: bisogno dell’anima di comunicare il dono ricevuto a chi può comprendere, bisogno del cuore che ha incontrato il Fuoco divino e che non può trattenersi da riscaldare gli altri nella carità. Per questo – per la fede obbediente e per la carità – potrà cantare la gioia del magnificat!
3. Umiltà
L’umiltà è Gesù che è sceso dal cielo per fare non la sua volontà, ma la volontà di Colui che l’ha mandato. Come ricordano i Padri del deserto, “l’umiltà non è uno dei cibi della mensa, ma il condimento di tutte le vivande” (Sentenze dei Padri del deserto, ed. Solesmes 1977). E San Benedetto ricorda che la scala dell’umiltà rappresenta la nostra vita quaggiù, che il Signore fa salire fino al cielo, se il nostro cuore è umile (cfr. Regola, c. 7).
Possiamo dire che l’umiltà è la terra buona dove germogliano tutte le virtù, dove nasce la santità. Essere umili significa vivere non rasentando i muri della vita, ma ricordando di essere peccatori; che portiamo un tesoro in un vaso d’argilla, perché tutti vedano che il bene viene da Dio: noi, infatti, possiamo volere il bene ma non abbiamo la capacità di attuarlo. Per questo, nel profondo delle nostre anime, dovrebbe continuamente gorgogliare la preghiera del pellegrino: “Signore Gesù, Figlio del Dio vivo, abbi pietà di me peccatore”. E per questo Isacco il Siriano può dire: “Conta di più vedere i propri peccati che risuscitare i morti con la preghiera: chi riconosce le proprie debolezze è più grande di chi vede gli angeli”.
Ma attenzione: il cammino dell’umiltà passa attraverso la prova dell’umiliazione che, in certi momenti, può apparire come una fornace. Si legge di un dialogo del demonio con Macario: “io non posso combattere con te. Eppure tutto quello che fai tu, lo faccio anch’io: tu digiuni e io non mangio affatto; tu vegli e io non dormo mai. In una sola cosa mi vinci. Macario disse: qual è questa cosa? Rispose il demonio: la tua umiltà” (Apoph. Sir.). L’umiltà conduce all’amore degli altri poiché cancella le invidie e le gelosie, lo spirito di antagonismo e la vanagloria: ci rende capaci di dolcezza e pazienza, sereni nel sopportarci a vicenda, capaci di perdono e di vera obbedienza che – come ricorda San Benedetto – ne è il primo grado (cfr Regola, c.5). Ci permette anche di riconciliarci con noi stessi, con la nostra povertà, non per scaricarla comodamente sui fratelli, ma per non dovere continuamente dimostrare agli altri il nostro valore.
Cari Amici, insieme a coloro che ci hanno preceduto nei secoli, con fiducia deponiamo sull’altare questi mille anni di storia: a noi il lavoro generoso, a Dio il frutto e la gloria. Vi auguriamo il dono della gioia: gioia della tenerezza del Padre, gioia della presenza di Gesù nei nostri cuori, nel mondo e nell’universo, gioia della sua venuta e quindi dell’ attesa. Siate i profeti di questa umile gioia per una terra triste e inquieta, alla ricerca della Luce che non tramonta. Il vostro sguardo non venga mai meno, gli occhi non si appesantiscano mai, sempre vigili e puntati sull’orizzonte del Signore che è venuto, viene e verrà. La vostra anima sia ferita dalla nostalgia del cielo: solo così può abbracciare la terra. Ogni giorno i vostri cuori ascoltino la promessa dell’ Apocalisse: “Sì, verrò presto”. E le vostre voci cantino, a nome dell’universo, le parole dell’invocazione: “Vieni, Signore Gesù, vieni”. Amen!
Angelo Card. Bagnasco
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