Trono perchè patibolo

Omelia pronunciata in Cattedrale nella Liturgia della Passione del Signore
14-04-2017
Arcidiocesi di Genova
Venerdì Santo 14.4.2017
OMELIA
‘Trono perché patibolo’
‘Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi. (…)
Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno’
Due reazioni opposte! Due uomini che, crocifissi con Gesù, reagiscono diversamente. Il primo vede ciò che vede, non va oltre la ribellione, la violenza, la rabbia; il secondo intravede qualcos’altro. Gesù evangelizza dalla croce, e il primo a riconoscerlo è un suo compagno di sventura. che lo ha osservato forse con iniziale curiosità, ma poi con crescente interesse.
1. Perché lui è riuscito a vedere ciò che l’altro non scorge? Perché, nonostante la vita sbagliata, non si era chiuso alla luce, non si era spenta la nostalgia del bene, di una vita diversa. E ora capiva che quel desiderio non era un’utopia irrealizzabile, un sogno ingenuo. Ora finalmente scopriva che quel segreto anelito era possibile; lo scopriva grazie a quell’uomo misterioso, compagno di patibolo, che viveva la sua sofferenza e il livore della folla in un modo diverso, strano e incomprensibile al mondo. Capiva che non c’è soltanto la violenza, la legge del più forte: in quel condannato abitava un’umanità che avrebbe voluto essere la sua, e che ora – alla fine dei giorni – finalmente gli veniva incontro. Scopriva un nuovo tipo di uomo, che non gioca sui rapporti di astuzia e di prevaricazione, ma che vive la vita – tutta la vita, anche il morire – pacificato, senza odio. Sì, finalmente sapeva che esiste un mondo diverso, un modo di essere uomini bello, attraente, che poteva essere deriso e schiacciato dall’opinione comune, dall’invidia e dalla ottusità del mondo, ma che comunque restava l’unico vero, buono, felice. Come un fiore nel deserto! Accanto a Gesù crocifisso, il fondo di onestà che era rimasto in lui, affiora a poco a poco e si manifesta con libertà davanti non solo al suo compagno di crimini, ma a tutto il popolo.
2. In quest’uomo, però, non riaffiora solo l’onestà, la libertà della verità, la scelta del bene, ma, guardando come soffre Gesù e il suo modo di affidarsi a Dio, compie il passo decisivo della fiducia che sfocia nella preghiera: ‘Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno’. Gli Apostoli lo hanno sempre chiamato Signore e Maestro, lui invece, ladro, lo chiama per nome nel segno di una vicinanza nuova, di una familiarità e di una amicizia che è capacità di intendersi fino in fondo, quando cala ogni maschera, quando non si può recitare più, e ognuno rivela se stesso. Egli ha capito che in quel crocifisso – uomo dei dolori, agnello innocente – non si consuma il fallimento di un’esistenza, ma si sta manifestando la potenza di Dio. E si butta in lui. In pochi istanti, accanto a Gesù e grazie a Lui, il ladro riscatta una vita triste e insignificante: la riscatta perché ha visto che è possibile fidarsi, che il bene esiste, che l’innocenza vince anche se battuta; ha visto che Dio è l’ultima parola sulle vicende umane. La sua invocazione esprime l’approdo alla fede, che è consegnarsi a Gesù perché lo porti con lui altrove. E così sarà! Egli è evangelizzato dalla gloria di Dio che risplende nel modo con cui Gesù affronta la sua vicenda di dolore e di ingiustizia. Ha compreso che quella croce insanguinata in realtà era gloriosa, era un trono perché patibolo d’amore per gli uomini. Non è un passaggio facile, ma quell’uomo, negli ultimi istanti, ci è riuscito: il desiderio del bene non era morto, la nostalgia di una vita buona era rimasta, era sopravvissuta tra le macerie della vita e tra le pieghe dell’anima. E noi?
Angelo Card. Bagnasco
Arcivescovo Metropolita di Genova
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