Te Deum di ringraziamento e Discorso di fine anno

31-12-2013

Genova, Chiesa del Gesù

31 dicembre 2013

 

Cari fratelli e sorelle, l’ultimo giorno dell’anno è motivo per ringraziare il Signore che ci ha accompagnati nel cammino. Ma è anche occasione per dare uno sguardo al tempo trascorso e farne tesoro per il futuro. Il tempo è dono di Dio e non dobbiamo sprecarlo. Non torna più!

 

  1. Il nostro primo pensiero va all’evento che ha segnato la vita della Chiesa: la rinuncia di Papa Benedetto XVI e l’elezione di Papa Francesco. Nello spazio di un giorno i Cardinali elettori, lasciandosi guidare dallo Spirito Santo, hanno scelto il nuovo Pastore universale. Ringraziamo il Signore Gesù, Pastore dei Pastori, perché fa sentire alla Chiesa la sua guida, e ringraziamo il Santo Padre Francesco per il suo Magistero che indica sicura la strada, e per il suo generoso esempio di sacrificio e di dedizione. La nostra comune ammirazione, però, deve trasformarsi sempre più in preghiera per lui, e in pronta, convinta sequela, ricordando le parole di Sant’Ambrogio: “ubi Petrus ibi Ecclesia”.

Come di consueto, una parola sulla nostra Diocesi: agli amati sacerdoti, ai religiosi e religiose, ai diaconi e ai molti laici impegnati in prima persona nei molteplici servizi alle comunità cristiane e alla società civile, va la nostra gratitudine. Solo il Signore può compensare ciascuno con la sua sovrabbondanza. Nella Visita Pastorale alla Diocesi ho toccato la grazia di Dio: la vitalità delle parrocchie e delle diverse aggregazioni laicali, la presenza viva di tante istituzioni religiose, la generosità umile e affidabile di tantissimi operatori, sono innumerevoli luci – piccole o grandi che siano – che formano una fitta rete luminosa di Vangelo, di preghiera, di carità, vero punto di riferimento per tutti. Ho visto quanto le duecentosettantotto Parrocchie siano dei veri presidi per il territorio, e casa aperta – fontana del villaggio – alla quale chiunque sa di poter attingere acqua per la propria sete. Ho toccato di persona – in modo più completo – la presenza cristiana negli ambienti di lavoro grazie ai cappellani, che con fedeltà assicurano una presenza pastorale apprezzata, discreta e affidabile. Esorto tutti ad avere fiducia, a mai scoraggiarsi di fronte alle inevitabili difficoltà, a credere fermamente alla forza del Vangelo che – come seme buono – penetra nel terreno con i suoi tempi e le sue vie. In attesa di scrivere una Lettera conclusiva sulla Visita Pastorale, a tutti dico con gioia e convinzione: in alto i cuori, il Signore e fedele!

Non possiamo tacere l’obiettivo del nuovo anno pastorale: la famiglia. La bellezza del matrimonio e della famiglia, l’incomparabile realtà di questo originario nucleo da cui scaturisce la vita ed è la prima palestra di relazioni solidali, è la ragione del nostro cammino Diocesano. Sì, Genova riflette sulla famiglia non per ripiegarsi in se stessa e sfuggire alle sfide ma, al contrario, per rimettere a fuoco il dono di quella che è stata giustamente definita la cellula della società, il fondamento dell’umano, prima forma di società: “la fraternità – scrive Papa Francesco – si comincia ad imparare solitamente in seno alla famiglia, soprattutto grazie ai ruoli responsabili e complementari di tutti i suoi membri, in particolare del padre e della madre” (Messaggio per la Giornata della Pace 2014). Quanto ce ne sia bisogno è sotto gli occhi di tutti. Ma lo scopo e anche quello di formulare proposte nuove, confermare iniziative già avviate, per incoraggiare e sostenere la coppia e la famiglia nel loro amore, e nella responsabilità educativa oggi sempre più urgente e delicata. Auspico che questo cammino pastorale sia partecipato da tutti, perché tutti ne siamo in qualche modo coinvolti.

 

  1. Come sempre, è questa l’occasione anche per alcune considerazioni sulla situazione sociale e culturale della città nel contesto nazionale e oltre. Com’ è ovvio, parlo da Pastore, non sono un tecnico o un responsabile diretto della cosa pubblica. Ma sia da Pastore che da cittadino, non posso essere indifferente di fronte alla vita della mia città e del Paese. Soprattutto, di chi non ha voce.

Sembra che in non pochi paesi del Continente la durissima crisi sia superata, o per lo meno sia iniziata l’inversione di marcia. Lo si spera anche per il nostro: gli sforzi in atto non sono pochi, bisogna onestamente riconoscerlo, e da più parti vengono indicati dei segnali promettenti. E’ altrettanto vero, però, che fino ad oggi le ricadute sul piano dell’occupazione non si vedono ancora. Genova è una città produttiva, e – a differenza di altre città di tipo amministrativo – la brutalità della crisi economica e lavorativa morde con denti più affilati persone e famiglie. Lo sanno bene le nostre Parrocchie, Istituti religiosi, associazioni, gruppi e movimenti: alimentano una rete fitta di solidarietà concreta che non cerca le prime pagine, ma che serve la moltitudine crescente di poveri e di indigenti che ogni giorno bussano alla ricerca di pane e consolazione. Sì, pane e consolazione, perché non si vuole rispondere solo ai bisogni delle persone, ma alle persone che sono nel bisogno. E questo è possibile – lo sanno i moltissimi operatori che ringrazio di cuore e incoraggio a non scoraggiarsi – è possibile abbracciando i poveri in una rete di rapporti di fraternità. La solitudine, infatti, uccide più di qualunque malattia e bisogno! Quando alla depressione economica, infatti, si aggiunge la depressione morale, il sentirsi abbandonati, non più considerati dalle istituzioni e dagli altri, allora è la paralisi delle forze, si spegne la fiducia, viene meno la voglia di resistere e di lottare. Tutto può trasformarsi in rabbia cieca e distruttiva.

Troppi giovani, si dice, neppure cercano più il lavoro, si sono arresi. E non certamente per pigrizia o comodità! Eppure abbiamo una gioventù che è riconosciuta capace, piena di risorse, di voglia di fare, vera ricchezza per il Paese. Nessuno deve rassegnarsi! Gli adulti devono guardare a loro con fiducia e con la disponibilità sincera di far posto accompagnandoli e comunicando le esperienze e le competenze che essi non possono avere, e che possono solo imparare da altri con umiltà, sacrificio e gratitudine. Come non pensare ad una esperienza che molti di noi ben conoscono? Tutti si sapeva che era necessario imparare il mestiere, e per questo i genitori chiedevano a persone esperte di insegnare ai figli l’arte, qualunque essa fosse. Nessuno nasce imparato – come si suol dire – e non esiste nessun grado accademico che possa sostituire la “gavetta”, cioè l’apprendimento sotto la guida cordiale ed esigente di altri. Non si tratta di ripetere le forme o di invocare altri tempi, ma di pensare che certi valori restano sempre.

Purtroppo, il modo di pensare e gli esempi che occupano continuamente la ribalta alimentano la cultura dell’apparenza, il mito della vita facile, del tutto e subito. Addirittura si deride chi ha mantenuto il gusto di conquistare le cose con pazienza e sacrificio, chi si mantiene onesto senza approfittare delle occasioni, chi ha il senso della misura e della sobrietà nel modo di vivere, chi ritiene un punto d’onore camminare “a testa alta” non per superbia, ma perché fa il proprio dovere. Cari amici, o cambiamo tutti questo modo di pensare, e allora saremo rinsaviti dopo la crisi, oppure – quando la notte sarà passata – saremo non come prima ma peggio; sì, perché non avremo fatto tesoro della dura lezione.

Il nostro tempo sembra sedotto dalla vanità, dalla cupidigia del denaro facile, e dal potere. Denaro e potere danno la sensazione di esistere, di essere importanti e forti, di contare nel mondo, di essere vivi! Possiamo trovare anche qui una radice dell’attuale crisi. Parlare di cambio del modo di pensare, cioè di cultura, non è sfuggire i problemi, ma affrontarli alla radice: se infatti la crisi economica rivela una crisi politica, questa dipende dalla crisi culturale alla quale si è dato poco peso, credendo che fossero astrazioni lontane dalla realtà concreta. Questo atteggiamento è stato miope e pilotato. Che cosa c’è di più concreto dei criteri di giudizio che decidono le scelte pratiche? Si potrà dire che la questione riguarda le persone singole e tutt’al più i piccoli nuclei come la famiglia, ma non la società e lo Stato che, invece, dovrebbero essere pragmatici e considerare le regole dei mercati, della finanza, dell’economia, dell’industria, senza voli di tipo etico e spirituale. Le regole della finanza e del mercato si devono cambiare se si rivelano inadeguate; ma è il cuore dell’uomo, la sua coscienza che formula le regole e le applica. E se il cuore e avido, non c’è legge che tenga: si andrà alla rovina!

Ad alimentare un certo modo di pensare e le conseguenti pretese, sta anche un modo di parlare urlato, il non voler sentire ragioni, seminare ai quattro venti slogans, luoghi comuni che cavalcano facilmente le angosce e i disagi, ma che restano appesi nell’aria minacciosi. Non sono pochi oggi i maestri di sventura e di illusioni: di solito, nella storia, si sono incontrati con conseguenze disastrose. Ma intanto alimentano un modo di pensare pericoloso sia per i singoli, che ne sono contagiati in ragione delle reali difficoltà, sia per la società nel suo insieme, perché risulta indebolito il senso di appartenenza, sono corrosi gli ideali comuni, la fiducia negli altri e nelle istituzioni. La depressione morale e più grave e è pericolosa della depressione economica!

 

  1. Chi ha l’opportunità di vedere Genova dall’alto, contempla una città adagiata sulla costa del mare e arrampicata sui fianchi dei monti che la proteggono alle spalle. Distesa lungo il golfo, sembra che il mare, il cielo e la terra formino come una conchiglia che la contengono come una perla preziosa. Ed essa, in effetti, nei secoli ha dato forma ad espressioni di una regalità che si è scolpita non solo nelle splendide chiese, negli antichi palazzi, nelle strade, ma anche nei suoi vicoli che – oltre ad essere frutto di spazio esiguo e di bisogno di difesa – rivelano la coscienza della propria bellezza e dignità. Un tempo, l’apertura di Genova sul mare era la sua peculiare caratteristica, la sua fondamentale ricchezza: dal mare alla terra e dalla terra al mare. Genova era la porta, la “ianua Maris et terrae”. Se anche allora le merci richiedevano di oltrepassare gli Appennini, i tempi si misuravano sui ritmi lenti delle altre città e regioni. Non c’erano velocità diverse. Ma oggi i tempi sono radicalmente cambiati: o ci si aggiorna o si resta fuori, perché gli altri non aspettano Genova. Senza scrupoli, la trascurano e la tagliano fuori. Sarà inutile allora lamentarsi, recriminare, pretendere attenzione e supporti: gli altri – regioni, Paese, Stati – non hanno tempo di attendere. Non possono aspettarci perché noi dobbiamo ancora decidere e fare. La bellezza di Genova – che nei secoli scorsi era anche motivo di difesa – oggi può essere una stretta mortale che la può rinchiudere e affondare. Genova vuole questo? Che cosa pensa Genova di se stesa, del suo futuro? Che cosa vuoi essere, Città nobile e amata che sembri oggi tanto incerta e rassegnata? Forse una luminosa residenza per anziani? Una tiepida e tranquilla località di riviera? La tranquillità che tutti desideriamo non è sinonimo di inerzia! E la lentezza non è sinonimo di prudenza. Nello scenario del Nostro Paese, dove si trova Genova? Quale contributo porta alla Nazione perché possiamo uscire insieme dal tunnel di cui si stenta ancora a vedere il fondo? Persone che, per motivi di lavoro, vengono nella nostra città dall’estero o da altre regioni, ne restano affascinati e si domandano perché si respiri un clima di difesa, di sorda sfiducia, come se Genova non potesse guardare avanti con serenità, con la determinazione e l’ardimento che l’hanno sempre accompagnata. Pare invece dominare un senso di incertezza che genera paura e paralisi rispetto a investimenti e a rischi propri di ogni intrapresa pubblica e privata.

Forse è la paura non solo di rischiare, ma anche di essere giudicati. Se non decidiamo noi, saranno gli eventi a decidere per noi: e che cosa è meglio? Sembra che nei rapporti prevalga il sospetto reciproco e forse il sentimento dell’invidia, come se ognuno – singoli e istituzioni – avesse timore che gli altri siano nemici, approfittatori, o come se ognuno dovesse far vedere che è più bravo degli altri. Ma se una società sprofonda non è stato bravo nessuno, e nessuno può guardare dalla finestra della storia, soprattutto quando sono i più deboli a soffrire povertà, disoccupazione e smarrimento. Non possiamo non ascoltare il grido dei poveri che si alza ogni giorno. È la voce di Dio che ripete: dov’è tuo fratello?

È proprio nei momenti di maggiore difficoltà che bisogna non arroccarsi per conservare, ma aprirsi per mettere insieme energie, inventiva, capitali, progetti. È necessario investire, ma per farlo vi devono essere ragionevoli certezze e incoraggiamenti da chi di dovere. Bisogna far crescere – come avviene in altri Paesi – la sussidiarietà leale e concreta tra pubblico e privato: il primo non deve essere arrogante e invasivo come se l’iniziativa privata fosse antagonista al prestigio e al l’autorità preposta, e il privato deve essere aperto al bene sociale, senza guardare il pubblico come un automatico e ideologico freno.

E’ anche necessario che la finanza ritorni al suo posto e riscopra la sua funzione sociale e quindi etica: la finanza non può governare l’economia e condizionare l’industria e la produzione. Essa è in funzione né di se stessa, del massimo profitto, ma dello sviluppo e della crescita della società da cui si alimenta. Ma è necessario anche che la fiducia e la collaborazione crescano tra coloro che sono protagonisti diretti nel mondo del lavoro: la situazione e inesorabilmente cambiata, e richiede che tutti si ripensi il proprio modo di vivere, di rapportarci e di lavorare. Ciò è necessario per affrontare positivamente la crisi e trovare strade e forme anche nuove, che permettano nello stesso tempo di salvaguardare il lavoro e di svilupparlo. Mantenere i livelli lavorativi, infatti, è oggi già qualcosa, forse molto; ma non può durare.

La concorrenza fa parte del mercato, ma deve avere delle regole innanzitutto morali: il lavoro dà dignità all’uomo, ma bisogna rispettarlo e farlo bene; i programmi di sviluppo sono necessari, e la via del dialogo costruttivo è la migliore quando a guidare è la volontà di trovare soluzioni nel rispetto di tutti. In questo ambito, bisogna riconoscere che non pochi dedicano alle proprie imprese e ai loro lavoratori sacrifici e risorse ingenti. Ma una lamentela ricorrente documenta la pesantezza irrespirabile della burocrazia, spesso paragonata ad un labirinto incomprensibile e inestricabile. Viene da chiederci, se la burocrazia in generale ha lo scopo di garantire trasparenza, sicurezza ed equità, perché in altri Paesi tutto sembra scorrere molto più semplice, veloce, efficiente? Non pare che le necessarie tutele non siano garantite.

 

  1. Si aggira per l’Europa, e anche nella nostra Città, un virus – l’individualismo – che annuncia come un tristo predicatore che l’uomo è morto. Sì, sarebbe morto come persona capace e lieta di vivere in relazione con Dio, con gli altri, con questo splendido creato. E sarebbe ormai nato l’individuo centrato su se stesso, assolutamente autonomo, capace solo di rapporti di convenienza e di uso. Per usare un’immagine, i nostri vicoli sarebbero solo delle vie di fuga, non dei modi per raggiungerci gli altri da un casa all’altra, cioè dei luoghi d’incontro. La società che ne conseguirebbe sarebbe non è un vivere insieme, ma un trovarci accostati, ognuno – individuo o istituzioni – preso da se stesso anche se ha i problemi di tutti. La sfiducia reciproca, in questa visione, la fa da padrona! Ad alimentare tale modo di pensare sono le diverse cattedre dalle quali cola ogni giorno la cultura del sospetto, come se tutto fosse inquinato in partenza e nessuno fosse più degno di credito. Come se tutti volessero sempre e comunque approfittarsi di noi è sfruttarci a loro vantaggio. Se i pastori di Betlemme avessero avuto questo atteggiamento, non avrebbero incontrato la gioia.

Dobbiamo reagire tutti a questa violenza continua e sistematica. Ci vogliono far credere che la gente e ormai sbandata moralmente e spiritualmente: è moderna e aggiornata, come si dice! Ci si vuole far credere che il Paese e marcio spargendo su tutto e su tutti fango, senza che nessuno paghi per il male fatto alle persone, alle istituzioni e alla Nazione. Ma così non è! Il male esiste e lo vediamo tutti, ma il bene è sconfinato ed è molto più grande: è come la foresta che cresce ogni giorno nel silenzio, anche se alcuni cedri cadono rumorosi. La realtà più grande e più versa è quella della gente semplice che vive ogni giorno la bellezza rassicurante della famiglia; che lavora con professionalità; che ha l’orgoglio di guadagnarsi il pane con dignità; che cura i propri bambini, i vecchi e i malati con una dedizione che sa di eroismo, senza per questo sentirsi degli eroi. In una parola, è la gente che cammina a testa alta non per orgoglio o vanità, ma perché seria e onesta. Cari amici – lo ripeto con forza e convinzione – dobbiamo reagire a un modo nefasto di vedere le cose, che vorrebbe ad arte gettarci in una triste rassegnazione. Che ha lo scopo di farci rinchiudere ognuno in se stesso nella disperante illusione di difendersi e di salvarsi sulla propria solitaria scialuppa.

Come fanno altri Paesi a noi vicini, l’Italia deve fare sistema e difendere, aiutare e promuovere la miniera sempre viva di capacità, di lavoro, di innovazione e ricerca, di piccole e grandi realtà che formano una ricchezza riconosciuta nel mondo: difendere e mai svendere, allearci e mai consegnarci, imparare da chiunque e mai sottometterci complessati e impauriti. Ci sono patrimoni ingenti nel nostro Paese e nella nostra Regione, che subito potrebbero essere messi in circolo per dare ossigeno allo sviluppo con ricadute positive sull’occupazione. Ci sono mercati internazionali da affrontare con fiducia e determinazione, senza dover capitolare come se fosse un destino inesorabile. Insieme si possono percorrere vie più ardue, forse meno immediate, ma che preservano e rilanciano eccellenze piccole e grandi che sono nostre anche oggi. Perché gettare la spugna?

E così dobbiamo fare a Genova, perché l’amiamo: mai denigrarci gli uni gli altri, ma semmai difenderci a vicenda. Mai porre dei veti perché non si facciano le cose, ma collaborare perché si facciano bene e presto. Nessuno deve rassegnarsi a tempi infiniti e incerti per una decisione, un permesso, una realizzazione. E nessuno dovrebbe opporsi allo sviluppo in base ai propri immediati interessi o piccoli comodi.

La Chiesa, anche a Genova, serve la comunità cristiana e civile con umiltà giorno per giorno. Servire per il bene integrale di tutti è la sua missione e la sua gioia. Mentre ringraziamo il Signore con il Te Deum, affidiamo alla Madonna – la Grande Madre di Dio – il nuovo anno. A Lei chiediamo la sua materna protezione per i piccoli e i poveri, per le famiglie, i bambini e malati, per la tante solitudini che attendono una luce di speranza anche dai nostri volti, dalle nostre parole. Soprattutto dalle nostre opere. Così sia!

Angelo Card. Bagnasco

Arcivescovo di Genova

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