1. La solennità del ‘Corpus Domini’ ci chiama a riflettere sul mistero Eucaristico, che il Concilio Vaticano II dice essere ‘fonte e culmine’ della vita cristiana e della missione della Chiesa (cfr S.C. 10). La riforma liturgica ha messo bene in evidenza la struttura della Santa Messa: la mensa della Parola e la mensa Eucaristica, ed ha ricordato come la seconda mensa sia memoriale del sacrificio di Gesù e convito. Sono due aspetti intimamente congiunti che non possono essere separati: si tratta, infatti, di convito sacrificale o di sacrificio conviviale. C’è stato un tempo nel quale la dimensione conviviale è stata posta in forte rilievo anche a scapito del sacrificio: forse perché è più facile e intuitiva di natura sua. Anche l’altare a mensa può richiamare meglio il carattere di ‘cena’, e questo è comprensibile: ci invita a nutrirci del suo Corpo e Sangue preziosi per rimanere in noi e noi in Lui, per crescere nella vita nuova della grazia. I Padri dicono per ‘diventare Lui’. Ma Gesù, nel Cenacolo, non fece con gli Apostoli una cena daddio, bensì un atto liturgico nel quale all’agnello pasquale sostituisce se stesso per la libertà non da una schiavitù umana – quella antica dall’Egitto ‘ ma dalla schiavitù del peccato, che ci tiene lontani dalla vita e dalla gioia, Dio. In quella sera, sospesa nel mistero e nell’attesa, Gesù anticipa nei segni sacramentali ciò che sarebbe accaduto fisicamente sul Golgota: il sacrificio della sua vita per la salvezza del mondo. Non è possibile, quindi, separare i due aspetti.
2. Ma in che cosa consiste il sacrificio della salvezza? Non tanto nel dolore e nello strazio della carne, ma nell’abbandono e nella fiducia nel Padre: fiducia e consegna fino al dolore e alla morte della Croce. E’ infatti il momento della prova che rivela, in modo del tutto particolare, la verità di chi siamo, dei nostri sentimenti, delle decisioni di fondo di cui viviamo. Nelle croci della vita l’uomo viene denudato da corollari e orpelli, smascherato da possibili apparenze e ruoli, e resta quello che è davanti a se stesso, al mondo, in faccia a Dio: non vi è tempo e voglia per recitare. Tutta la vita di Cristo ha la forma della ‘consegna’, dell’ obbedienza d’amore al Padre nel sigillo dello Spirito: ‘Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito’ (Lc 23,46), ‘Padre, se vuoi allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia , ma la tua volontà’ (id 22,42). E questo il cuore del sacrificio redentore che brucia i peccati dell’umanità e la restituisce alla grazia, la vita di Dio. Ogni peccato, infatti, è poco o tanto non fidarsi di Dio.
3. Il sacrificio appartiene alla categoria del dono, non del prestito ma della espropriazione, della consegna all’altro. E mette in rilievo il carattere oneroso del dono. Vi può essere, infatti, un dono senza fatica, allegro, ma vi sono doni che costano in termini di distacco, di rinuncia, di sofferenza: una madre al letto del proprio bambino notte e giorno si dona nella fatica, non nell’allegria ma nella pace. Si sacrifica per amore. E’ questo ciò che Gesù ha fatto per noi diventando così il nuovo Adamo: l’antico non si è fidato di Dio e non si è consegnato a Lui. Ecco perché il sacrificio di Cristo è perenne, ed esiste la Liturgia del Cielo: sul Golgota il dono ha assunto la forma cruenta e storica, nella gloria del cielo permane nella sua sostanza, sull’altare si ripresenta nella forma sacramentale del Pane e del Vino consacrati. E’ una specie di circolarità dinamica e perenne: dal Cielo del Verbo eterno alla terra, e dalla terra alla Liturgia del Cielo per ritornare sulla terra. Gesù, che si affida nel tempo e nell’eternità, è l’unico ed eterno sacrificio della salvezza, ma anche l’unico ed eterno Sacerdote, e l’unico vero altare sul quale offre se stesso per sempre. Della Liturgia, dunque, Cristo è il Protagonista: non siamo noi Sacerdoti ordinati – pur necessari – né alcun altro in forza del Battesimo, ma solo Cristo. E questo ci dà la misura delle cose perché tutti possiamo stare al nostro posto e non celebriamo noi stessi, ma Lui. Ci dona il criterio di uno stile celebrativo dove ogni elemento – persone, gesti, cose, musiche e canti – rimandi a Lui. Ed è per tale ragione che la divina Liturgia è tesoro nelle mani della Chiesa, non di altri, individui, gusti, ideologie.
4. Ma qual è il nostro posto nella Celebrazione Eucaristica nella quale il Cielo ‘scende’ sull’altare e si fa presente nel mistero dei santi segni? Basta rileggere tutti i prefazi del Messale: ognuno si conclude con il richiamo agli Angeli e ai santi nella Liturgia celeste alla quale ci uniamo nella Santa Messa. La ‘partecipazione attiva’ che raccomanda il Concilio ha un cuore (cfr S.C. 48): non sono i gesti, le parole, i canti, le musiche, gli strumenti, le coreografie’- su cui dovremmo a volte discernere maggiormente perché non siano banali o estrosi, piuttosto di distrazione e disturbo anziché di aiuto – ma il ‘lasciarci andare’ a Dio come Gesù; è rinnovare ogni volta la consegna a Lui non solo come ha fatto Cristo, ma ‘per’ Lui, cioè con la forza del suo amore, e con Lui, cioè nella sua compagnia. Ancora di più, dobbiamo abbandonarci al Padre ‘in’ Gesù, cioè nel suo ‘io’. E’ questo il senso misterioso del crescendo proprio della ‘dossologia’: ‘Per Cristo, con Cristo e in Cristo’-. O avviene questo passaggio dal nostro io allio di Gesù – passaggio personale ed ecclesiale – oppure non c’è vera partecipazione. Questo passaggio è nelle mani di ciascuno, perché nessuno può sostituirsi alla libertà dell’altro, neppure il celebrante. Sta qui l’esercizio del Sacerdozio battesimale che fa di noi un Popolo sacerdotale (cfr L.G. 10): nell’offerta di noi stessi, nessuno può sostituirci. Anche il ministro ordinato – sacerdote o Vescovo – deve lui stesso non rimanere paradossalmente fuori dal mistero che gli è dato di celebrare. Deve lui arrendersi per primo al mistero che ha nelle sue mani consacrate.
5. Cari Amici, riusciremo mai ad entrare nell’Eucaristia? A partecipare al sacrificio di Gesù? Ad arrenderci a Dio, cioè a consegnarci radicalmente a Lui? Consegnarci al Signore è espropriarci, è voler appartenere. Oggi si ha paura di appartenere. Ognuno è talmente geloso della propria autonomia da rifiutare i legami; tutt’al più sopporta delle appartenenze temporanee. Si illude così di essere libero e se stesso, ma invece è estraneo e solo. Appartenere a Dio è liberarci dalla preoccupazione di noi stessi perché è Dio che pensa a noi. E’ dunque libertà, la libertà dei figli. Tutto ciò non è scontato, ma non dobbiamo temere: ogni volta che andiamo alla Messa chiediamo la grazia di parteciparvi con il ‘cuore’. Quando si parla di ‘cuore’ sembra si entri in un terreno scivoloso e incerto; che si parli solo di sentimenti e di sensazioni, di quel mondo di sensibilità e vibrazioni che è nostro, ma non è tutto di noi. In realtà, la Bibbia parla del cuore come del luogo più intimo in cui l’uomo fa sintesi e decide. E’ nel nostro cuore che si concepiscono i desideri più veri e radicali, nel bene e nel male: si tratta allora ogni volta di rinnovare il desiderio di arrenderci a Dio, in qualunque circostanza ci troviamo, come e in Gesù, anche quando Dio ci conduce per vie che non comprendiamo o che non vorremmo percorrere. Si tratta di supplicare di saperci fidare veramente di Dio perché è Padre e vuole il nostro bene.