Nel cuore della Trinità

Lettera pastorale per l'Anno Santo 2000

Introduzione

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È giunto l’anno di grazia del Signore

 

  1. “Con lo sguardo fisso al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, la Chiesa si appresta a varcare la soglia del terzo millennio”. Così scrive il Santo Padre in apertura della Bolla di indizione del Grande Giubileo del 2000 (Incarnationis mysterium, 1).

Questo sguardo – diventato immediatamente trinitario, perché rivolto a Cristo, allo Spirito e al Padre – ci ha accompagnato nell’ultimo triennio. Rendiamo grazie a Dio e insieme diciamo la nostra riconoscenza al Papa che ci ha proposto questo meraviglioso itinerario da cui ha tratto motivazione e slancio la vita spirituale e pastorale anche della nostra Chiesa di Genova.

Siamo ora alla celebrazione del Giubileo. È giunto il momento di dare finalmente risposta all’invito alla conversione  e di accogliere la singolare grazia di misericordia e di perdono che con il Giubileo Dio offre alla Chiesa e all’umanità. Anche per noi, per ciascuno di noi il Padre ha preparato una grande grazia, che ha in sé la forza di rinnovarci in profondità  e di colmarci di vera gioia.

È il Giubileo del 2000. E questa data è quanto mai significativa: non tanto perché conclude un secolo anzi un millennio, quanto perché si collega con una situazione storica e culturale che è segnata da una fortissima contraddizione: alla pienezza del tempo, che il Giubileo ricorda e che è motivo di singolare gioia per la Chiesa, fa riscontro lo svuotamento del tempo in atto nella nostra società, segno e causa di grave sofferenza e turbamento.

 

Il tempo: tra “pienezza” e “svuotamento”

  1. Il cuore dei credenti non può non essere nella gioia, perché confessa che Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, morto e risorto per noi, è l’unico e universale Salvatore del mondo: ieri, oggi e sempre, dunque anche per il nuovo millennio che si apre. È proprio questa la “pienezza del tempo” di cui ci parla l’apostolo Paolo nella lettera ai Galati: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, (…), per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo che grida: Abbà, Padre” (Galati 4, 4-6).

La gioia per questa “pienezza del tempo” è chiamata a intensificarsi nel ricordo che il Giubileo fa  della nascita di Cristo a duemila anni di distanza. Scrive il Papa: “La nascita di Gesù a Betlemme non è un fatto che si possa relegare nel passato. Dinanzi a lui, infatti, si pone l’intera storia umana: il nostro oggi e il futuro del mondo sono illuminati dalla sua presenza. Egli è ‘il Vivente’ (Apocalisse 1, 18), ‘colui che è, che era e che viene’ (Apocalisse 1, 4)… Incontrando Cristo, ogni uomo scopre il mistero della propria vita. Gesù è la vera novità che supera ogni attesa dell’umanità e tale rimarrà per sempre, attraverso il succedersi delle epoche storiche” (Incarnationis mysterium, 1).

A trovarsi invece nella sofferenza e nel turbamento è la società umana che, estranea e talvolta ostile a Gesù Cristo, assume atteggiamenti e comportamenti  che hanno come drammatico esito uno “svuotamento del tempo”:  questo viene vissuto come tempo banale, privo di valori, insignificante, ateo e disumano. Al di là dell’immagine, l’uomo vive, ossia giudica e fa le sue scelte, con i criteri del soggettivismo e dell’arbitrio (l’io si fa padrone di sé e degli altri), del relativismo e dell’indifferentismo (tutte le opinioni hanno lo stesso valore), del secolarismo e della scristianizzazione (si pensa e si agisce al di fuori o contro Dio e il Vangelo), della negazione della dignità personale (il disprezzo di questa sacrosanta dignità è la radice ultima da cui scaturiscono tutte le forme di ingiustizia, violenza, odio, guerra di cui la fine di questo secolo è tragicamente spettatrice e protagonista).

Ma a ben pensarci la contraddizione tra pienezza e svuotamento del tempo abita, in qualche modo, anche nel nostro cuore di credenti. I criteri di giudizio e di scelta ora ricordati contagiano non poco gli stessi cristiani, anzi le stesse comunità ecclesiali, che finiscono per giudicare e per agire “secondo il mondo” e non invece “secondo il Vangelo”: e così si dimenticano o si attenuano o si contrastano la bellezza e la forza nuove e rinnovatrici della verità di Cristo e della fede della Chiesa. Noi stessi, se ascoltiamo spassionatamente la voce del nostro cuore, dobbiamo riconoscere la carica di pressione e di omologazione che i criteri “mondani” esercitano sulle nostre azioni quotidiane. Come non lasciarci inquietare, allora, da queste provocatrici parole di Gesù: “Ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato?” (Matteo 5, 13).

Se questo è il contesto sociale e culturale – e insieme personale – entro il quale noi celebriamo il Giubileo del 2000, veniamo da esso fortemente interpellati e impegnati: non possiamo dormire se il nostro mondo soffre di questa povertà morale e spirituale quanto mai grave e pericolosa. E’ l’ora della conversione e della missione: il Giubileo, chiamandoci alla conversione e donandoci la misericordia purificatrice e consolatrice del Padre, accende in noi il fuoco dello Spirito che ci spinge a vivere in santità e ci sollecita a uscire dalle porte del Cenacolo per essere nel mondo testimoni di Gesù e annunciatori della “lieta notizia” che salva, ossia di quella “pienezza del tempo” che solo può liberare dallo “svuotamento del tempo”.

Anche questa è una grazia straordinaria del Giubileo: riscoprire tutti l’urgenza e la bellezza della vocazione alla santità e della missionarietà, come costitutivo dinamico permanente della Chiesa e del cristiano. A questo ci richiama il Santo Padre: “Più l’Occidente si stacca dalle sue radici cristiane, più diventa terra di missione” (Tertio millennio adveniente, 57). È questa la sfida che dobbiamo raccogliere e vincere: “Noi non possiamo permetterci di dare al mondo l’immagine di terra arida, dopo che abbiamo ricevuto la Parola di Dio come pioggia discesa dal cielo” (Incarnationis mysterium, 4).

 

La Lettera pastorale: aiuto per una degna celebrazione del Giubileo

  1. Questa Lettera pastorale “Nel cuore della Trinità”, che ho scritto con gioia e con grande fiducia, vuole essere un aiuto per celebrare degnamente l’Anno Santo, in collegamento con il cammino spirituale e pastorale che da tempo è in atto nella nostra Chiesa di Genova.

Si articola in quattro parti: ciascuna di queste ha una sua specificità – e in qualche modo la sua completezza –, e tutte insieme queste parti si ritrovano profondamente unite nello stesso fondamentale obiettivo, quello appunto di una degna celebrazione del Giubileo.

La prima parte è dedicata a una breve meditazione sul mistero della Santissima Trinità, alla cui glorificazione – ossia alla lode gioiosa della sua grandezza e del suo amore per noi – è destinata ogni celebrazione giubilare. È la Trinità, “dalla quale tutto viene e alla quale tutto si dirige, nel mondo e nella storia” (Tertio millennio adveniente, 55), che illumina e ispira il cammino del Giubileo nei suoi significati e nelle sue urgenze. In questo senso alla contemplazione e alla glorificazione del Dio Trino e Uno si riconducono i contenuti anche delle altre parti della Lettera pastorale, come intende sottolineare il titolo scelto “Nel cuore della Trinità”.

La seconda parte presenta gli orientamenti  e le indicazioni del Vescovo a conclusione della Visita Pastorale: vissuta come “un camminare insieme, Pastore e gregge, verso quell’evento di grazia, di gioia, di conversione e di riconciliazione” che è il Giubileo (cfr. Chiesa di Genova, La Visita Pastorale. In cammino col Vescovo verso il Giubileo, pag. 3), la Visita Pastorale trova la sua naturale conclusione con la celebrazione stessa del Giubileo. Vi è infatti una profonda sintonia tra i contenuti degli “orientamenti” e delle “indicazioni” della Visita Pastorale, da un lato, e le finalità e le esigenze spirituali e pastorali del Giubileo, dall’altro.

La terza parte illustra nei loro significati autentici il cammino giubilare e il calendario dell’Anno Santo 2000 per la nostra Chiesa di Genova, in comunione e in dialogo con la Chiesa universale.

La quarta e ultima parte ripropone i due fondamentali impegni della vita cristiana –l’evangelizzazione e la testimonianza della carità – in rapporto ad alcune specifiche iniziative della nostra Chiesa, come l’iniziativa “Il Vangelo sia con te” e il rinnovato servizio della carità.

Come non augurarci che il “tempo favorevole” del Giubileo invogli tutti – in particolare i sacerdoti, le persone consacrate, i vari operatori pastorali – a una lettura attenta, impegnata e integrale di questa Lettera pastorale? La fede e l’amore verso la Chiesa e il Vescovo, che lo Spirito Santo effondono nel nostro cuore, ci portano  a considerarla anch’essa come una grazia del Signore, un dono di luce e di stimolo per proseguire alacremente il nostro cammino di Chiesa nella spiritualità, nella comunione e nella missione.

 

 

 

Parte Prima

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AL DIO TRINO E UNICO NEI SECOLI SIA GLORIA

 

 

  1. Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo. È questa la preghiera di lode e il canto che la Chiesa e tutti noi credenti rivolgiamo a Dio, ogni giorno, da circa millecinquecento anni, da quando cioè la formula fu coniata da uno dei più grandi filosofi e teologi della Chiesa, san Basilio Magno.

Sì, recitiamo questa brevissima preghiera di benedizione, così come facciamo il segno della croce. Ma quale reale significato queste parole e questi gesti hanno per noi, per la nostra vita, per l’azione pastorale della Chiesa?

Il Giubileo chiede a tutti noi di affrontare con umiltà e con coraggio questa domanda: può sembrare troppo semplice, se non superficiale, mentre è veramente decisiva della nostra dignità e vocazione, del nostro stesso destino, come pure della vita e della missione della Chiesa nella storia.

 

Il Giubileo sotto il segno della Santissima Trinità

  1. La Trinità è il mistero dei misteri. Con essa noi siamo al cuore stesso della vita di Dio e per questo al centro della storia del mondo e dell’umanità. Ed è proprio nella glorificazione del Dio Trino e Uno che il Giubileo trova il suo significato originario, essenziale e qualificante, sia per un’esigenza oggettiva e interiore, cioè per la natura stessa della realtà, sia per l’intenzione esplicita del Santo Padre: egli, infatti, nella lettera di preparazione ha indicato come obiettivo della celebrazione del Grande Giubileo “la glorificazione della Trinità, dalla quale tutto viene e alla quale tutto si dirige, nel mondo e nella storia” (Tertio millennio adveniente, 55).

È questo lo sbocco naturale del triennio preparatorio: “A questo mistero guardano i tre anni di preparazione immediata: da Cristo e per Cristo, nello Spirito Santo, al Padre”. Se il Giubileo ha tra i suoi segni il pellegrinaggio, anzi se il Giubileo stesso deve dirsi un singolare pellegrinaggio dello spirito, possiamo coglierne la verità integrale quanto mai affascinante e insieme impegnativa in queste altre parole del Papa: “La celebrazione giubilare attualizza ed insieme anticipa la meta e il compimento della vita del cristiano e della Chiesa in Dio uno e trino”.

È ancora il Santo Padre a sviluppare, sotto un profilo catechetico e insieme spirituale, la connotazione trinitaria che è propria del Giubileo. Scrive infatti nella Bolla di indizione: “Gli anni di preparazione al Giubileo sono stati posti sotto il segno della Santissima Trinità: per Cristo – nello Spirito Santo – a Dio Padre. Il mistero della Trinità è origine del cammino di fede e suo termine ultimo, quando  finalmente i nostri occhi contempleranno in eterno il volto di Dio” (Incarnationis mysterium, 3). Sottolineiamo immediatamente questa duplice prospettiva: la Trinità è origine e termine ultimo del cammino di fede. In realtà, se la fede della Chiesa e del cristiano è un cammino, essa ha un inizio e una meta: e l’uno e l’altra stanno nella Trinità. Con parola solenne Gesù ha delineato così il “senso” della sua esistenza – ma anche dell’esistenza nostra, della Chiesa, dell’umanità – : “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre” (Giovanni 16, 28).

È vero: il Grande Giubileo celebra l’Incarnazione del Figlio di Dio, fa la memoria dei duemila anni della sua nascita; ma lo sguardo su Gesù è inscindibile e fa tutt’uno con lo sguardo sulla Trinità, come spiega il Papa: “Celebrando l’Incarnazione, noi teniamo fisso lo sguardo sul mistero della Trinità. Gesù di Nazareth, rivelatore del Padre, ha portato a compimento il desiderio nascosto nel cuore di ogni uomo di conoscere Dio. Ciò che la creazione conservava impresso in sé come sigillo dalla mano creatrice di Dio e ciò che i Profeti antichi avevano annunciato come promessa, nella rivelazione di Cristo giunge a definitiva manifestazione. Gesù rivela il volto di Dio Padre ‘ricco di misericordia e compassione’ (Giacomo 5, 11), e con l’invio dello Spirito Santo rende manifesto il mistero di amore della Trinità. È lo Spirito di Cristo che opera nella Chiesa e nella storia: di lui si deve restare in ascolto per riconoscere i segni dei tempi nuovi e rendere l’attesa del ritorno del Salvatore glorificato sempre più viva nel cuore dei credenti” (Incarnationis mysterium, 3).

Di qui il senso essenzialmente liturgico del Giubileo: è una celebrazione, una glorificazione, un canto di lode: “L’Anno Santo, dunque, dovrà essere un unico, ininterrotto canto di lode alla Trinità, Sommo Dio. Vengono in nostro aiuto le parole poetiche di san Gregorio Nazianzeno, il Teologo:

‘Gloria a Dio Padre e al Figlio,

Re dell’universo.

Gloria allo Spirito, degno di lode e tutto santo.

La Trinità è un solo Dio

che creò e riempì ogni cosa:

il cielo di esseri celesti e la terra di terrestri.

Il mare, i fiumi e le fonti

egli riempì di acquatici,

ogni cosa vivificando con il suo Spirito,

affinché ogni creatura

inneggi al suo saggio Creatore,

causa unica del vivere e del durare.

Più di ogni altra la creatura ragionevole

sempre lo celebri

come grande Re e Padre buono’ “.

 

Non dobbiamo perdere il nome del vero Dio

  1. Dalle parole del Papa ci viene un invito pressante e di capitale importanza: dobbiamo ritornare alle radici della nostra fede cristiana e quasi rimettere a nuovo il nostro riconoscimento del mistero del Dio Trino e Uno nelle sue più concrete implicazioni di vita, sia personale che comunitaria. Ma è impossibile questo rinnovamento se prima non prendiamo coscienza dei rischi che corre la nostra fede nella cultura d’oggi, come pure e soprattutto della centralità, anzi dell’assoluta novità di questo mistero nella vita e nella missione della Chiesa, e quindi in noi come cristiani.

Nell’attuale cultura, ossia nella mentalità diffusa e nel costume comune, registriamo un fenomeno che potremmo chiamare di “depersonalizzazione” di Dio: è il fenomeno della perdita della nozione cristiana di Dio Trinità, Padre Figlio e Spirito, ormai sostituita con l’immagine più comune della divinità, del Dio della ragione.

Come spiegare questo fenomeno? Non è forse il frutto e il segno, nel contesto di una pastorale che spesso manca di veri cammini di fede per adulti, di un contatto molto superficiale, se non addirittura inesistente, con la parola di Dio nella Sacra Scrittura? Questa, in realtà, ci rivela il Dio cristiano, l’unico vero Dio, che non è affatto l’ente supremo, senza volto e senza cuore, ma è il Dio Trino e Uno, è il Padre che nel Figlio unigenito crea e salva l’uomo e lo riempie del suo  Spirito.

Nello stesso tempo, questa “depersonalizzazione” di Dio non è forse anche il frutto e il segno di una crisi spirituale nel comprendere e nel vivere i grandi gesti della fede cristiana, quali sono in particolare i Sacramenti? Infatti, ogni celebrazione sacramentale avviene sempre nel nome e nella grazia della Santissima Trinità.

Si deve aggiungere poi che la diffusione di sette e di movimenti religiosi nel segno di una religiosità vaga e generica, che attira e imprigiona non pochi cristiani, contribuisce ad accentuare questo fenomeno di depersonalizzazione di Dio.

Ci è chiesta allora una grande vigilanza, il cui primo passo è la consapevolezza che anche noi cristiani possiamo correre il rischio mortale di credere in un Dio anonimo. Non dobbiamo perdere il nome del vero Dio, la nozione di Dio secondo verità: il nostro Dio non è quello freddo dei filosofi, non è l’Essere supremo della Rivoluzione francese, non è l’Architetto del mondo, ma è il Dio uno in tre Persone. La fede cristiana conosce solo il Dio trinitario, il Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. Come scriveva san Cesario d’Arles, “La fede di tutti i cristiani si fonda sulla Trinità” (Expositio symboli, sermo 9).

            Per rimettere a nuovo la nostra fede cristiana nel mistero del Dio Trino e Uno dobbiamo soprattutto prendere più viva coscienza che la Trinità delle Persone – Padre, Figlio e Spirito Santo – e l’Unità di Dio e in Dio è la novità assoluta del Cristianesimo, è la sua verità suprema, totalmente ignorata dalle filosofie e sconosciuta anche dal mondo delle religioni. Soltanto la fede cristiana è depositaria e annunciatrice di questa verità, ricevuta per mezzo della rivelazione da parte di Dio stesso. È per questa verità che il Cristianesimo si differenzia nettamente anche dalle altre religioni monoteistiche, quali l’Ebraismo e l’Islam, che esplicitamente la rifiutano. Per questo non basta credere in Dio, ma occorre credere in Dio come si è rivelato in Gesù, ossia quale Padre e Figlio e Spirito Santo.

 

Solo lo Spirito conosce i segreti di Dio

  1. Quanto abbiamo detto pone in luce la centralità del mistero trinitario: esso è uno dei due misteri principali della nostra fede, come si esprimeva il Catechismo di san Pio X: Unità e Trinità di Dio, Incarnazione Passione Morte e Risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo. Sono tra loro intimamente connessi, questi due misteri, perché è nella missione del Figlio – dal quale proviene lo Spirito – che noi conosciamo la vita trinitaria dell’unico Dio ed è per la medesima missione che noi entriamo a farne parte. In questo senso il segno di croce che tracciamo sul nostro corpo, nella professione della Trinità Santissima, è la sintesi perfetta dell’intero mistero della storia della salvezza: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo si rivelano e si donano a noi in Gesù che soffre e muore per noi sulla croce.

Abbiamo parlato della Trinità come di un “mistero”: è verissimo. Non è però secondo verità l’idea comunemente diffusa che la Trinità è qualcosa che sa di lontananza incolmabile e di incomprensibilità assoluta. La realtà invece è che la Trinità è vicinanza e presenza nella storia della salvezza e quindi nella storia di ciascuno di noi. Mistero qui è ciò che appartiene al mondo di Dio, al segreto della sua vita, ma che Dio stesso nel suo amore ci rivela. Proprio a questo “mistero dei misteri” di Dio possiamo applicare le bellissime parole di Paolo: “Sta scritto: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato” (1 Corinti 2, 9-12).

È Dio stesso che squarcia il silenzio del suo mistero (e la parola greca mysterion significa appunto “tacere”) e offre a noi un qualche bagliore della sua infinita luce: che diventa per noi, dice F. Mauriac, “luce abbagliante ma non accecante”. È dunque per l’iniziativa assolutamente gratuita di Dio che all’uomo viene rivelata la Trinità: l’intelligenza umana non la può comprendere, ma solo la fede adorante può accostarsi al riconoscimento del mistero di Dio e solo la preghiera contemplativa può parlare il meno indegnamente possibile di Dio. Per questo la Chiesa ci invita a rivolgerci allo Spirito Santo, che solo conosce le profondità di Dio, e a pregarlo con umile fiducia: “O Spirito Paraclito, uno col Padre e il Figlio, discendi a noi benigno nell’intimo dei cuori…O luce di sapienza, rivelaci il mistero del Dio trino ed unico, fonte d’eterno Amore” (Liturgia delle Ore, Inno di Terza).

È vero che l’uomo, quale essere pensante e assetato d’infinito, da sempre ha cercato di andare verso Dio per conoscerlo e per incontrarlo nel suo mistero supremo, come ci testimoniamo le religioni e le mistiche extrabibliche. Ma il movimento biblico e cristiano di Dio è inverso: non è l’ascensus hominis ma il descensus Dei:  è Dio che viene verso l’uomo e si rivela a lui. Solo in questa prospettiva si può conoscere veramente Dio, per il fatto cioè che egli stesso si fa conoscere svelando all’uomo la propria vita segreta, la propria intimità divina. La Trinità, dunque, è un mistero della fede in senso stretto, uno dei “misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono divinamente rivelati” (Concilio Vaticano I). Scrive il Papa in un stupendo passaggio della Lettera Tertio millennio adveniente: “Tocchiamo qui il punto essenziale per cui il cristianesimo si differenzia dalle altre religioni, nelle quali sì è espressa sin dall’inizio la ricerca di Dio da parte dell’uomo. Nel cristianesimo l’avvio è dato dall’Incarnazione del Verbo. Qui non è soltanto l’uomo a cercare Dio, ma è Dio che viene in Persona a parlare di sé all’uomo ed a mostrargli la via sulla quale è possibile raggiungerlo” (n.6).

 

Gesù rivela il volto trinitario di Dio

  1. Ma come Dio ha rivelato il segreto della sua vita trinitaria? Non in astratto, ma in concreto, con eventi e fatti storici, ossia quando il mistero del Dio Trino e Uno è diventato “storia di salvezza” per noi ed è giunto al suo culmine con la missione del Verbo e con l’elargizione dello Spirito. Dunque, noi sappiamo che Dio non è solo, ma che nell’unicità della sua natura – Dio è uno – egli è Padre e Figlio e Spirito Santo perché il Figlio e lo Spirito sono stati mandati nel mondo: è la loro missione che ci ha rivelato e aperto il mistero della vita di Dio.

La storia della salvezza, di cui le pagine della Sacra Scrittura sono una continua, luminosa testimonianza, ci si presenta come la progressiva “rivelazione” e “donazione” del mistero della vita trinitaria all’uomo. Ciò emerge, in un modo particolare, dalla vita, dalla parola, dalla missione di Gesù, del Figlio unigenito di Dio fatto uomo, e soprattutto dalla sua morte e risurrezione, ossia dal suo donarsi sulla croce con l’effusione dello Spirito. Gesù ci rivela Dio come suo Padre: è il Padre che gli dà di amare fino a offrire la propria vita e che in questo abbandono totale di sé gliela fa ritrovare. Ci rivela, inoltre, la sua vita di Figlio completamente riferito al suo Abbà, sempre in relazione con Lui. Ci rivela e insieme ci consegna lo Spirito, come amore personale che vincola il Padre e il Figlio.

Leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica: “Gesù ha rivelato che Dio è ‘Padre’ in un senso inaudito: non lo è soltanto in quanto Creatore; egli è eternamente Padre in relazione al Figlio suo Unigenito, il quale, a sua volta, non è Figlio che in relazione al Padre: ‘Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare’ (Matteo 11, 27). Per questo gli Apostoli confessano Gesù come ‘il Verbo’ che ‘in principio’ ‘era presso Dio’, ‘il Verbo’ che ‘era Dio’ (Giovanni 1, l)… Prima della sua Pasqua, Gesù annunzia l’invio di un ‘altro Paraclito’ (Difensore), lo Spirito Santo. Lo Spirito che opera fin dalla creazione, che già aveva ‘parlato per mezzo dei profeti’ (Simbolo di NiceaCostantinopoli), dimorerà presso i discepoli e sarà in loro, per insegnare loro ogni cosa e guidarli ‘alla verità tutta intera’ (Giovanni 16, 13). Lo Spirito Santo è in tal modo rivelato come un’altra Persona divina in rapporto a Gesù e al Padre… L’invio della Persona dello Spirito Santo dopo la glorificazione di Gesù rivela in pienezza il Mistero della Santa Trinità” (nn. 240-244).

Anche l’apostolo Paolo espone il piano di salvezza di Dio sempre con un’inconfondibile impronta trinitaria, come appare ad esempio nel saluto e nella benedizione che conclude la Seconda Lettera ai Corinti: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio (Padre) e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi” (2 Corinti 13, 13). Ci accorgiamo che sono le stesse parole che il sacerdote ci rivolge all’inizio della celebrazione dell’Eucaristia. In realtà facevano parte della più antica liturgia eucaristica della Chiesa, ed è da qui che l’apostolo le ha riprese. Erano anche le stesse parole che i primi cristiani usavano nel loro scambio di augurio di pace.

 

La Trinità: esperienza personale di vita

  1. Questo ci mostra con grande chiarezza che il mistero della Trinità entra nella vita della Chiesa e del cristiano: nella celebrazione eucaristica e nell’esistenza quotidiana. Siamo di fronte a un inserimento che è essenziale e costitutivo della stessa vita cristiana: non c’è vita cristiana senza Trinità. Il cristiano è l’uomo che, battezzato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, vive nella grazia, ossia è reso partecipe della vita trinitaria di Dio; è l’uomo che nutre questa vita nuova con i Sacramenti, celebrati nel nome e nella forza del Dio Trino e Uno; è l’uomo che prega rivolgendosi al Padre per mezzo di Cristo Gesù nello Spirito.

Ma tale inserimento deve farsi sempre più consapevole e libero: la Trinità deve diventare esperienza personale di vita, come è stato per i santi e come è per tante persone umili e semplici ma splendide per la ricchezza della loro fede. Non rischiamo – dicevamo sopra – anche noi cristiani di perdere il nome del vero Dio? E in termini più precisi: non rischiamo di perdere l’esperienza della novità che ci viene donata da Dio, ossia del nostro essere figli del Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo?

È necessario educarci ed educare a intrattenere relazioni personali con le Tre Persone divine, con il Padre di cui siamo figli, con il Figlio di cui siamo fratelli, con lo Spirito di cui nella Chiesa siamo tempio e sposa.

Contenuti fondamentali di questa opera educativa sono, tra gli altri:

—  la convinzione gioiosa che un uomo in grazia è la dimora vivente della Trinità, è la Trinità nel tempo, nello spazio, nelle vicende della vita;

—  l’adorazione, la contemplazione, la preghiera di lode, il rendimento di grazie, il colloquio amoroso e personale con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo;

—  l’abbandono fiducioso a Dio come al Padre, totalmente libero da qualsiasi angoscia: “E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: ‘Abbà, Padre!’” (Romani 8, 15);

—  la speranza viva e audace che alla nostra adozione a “figli nel Figlio” seguirà l’eredità: “E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo” (Romani 8, 17); e l’eredità non sarà una cosa, ma l’amorosa e beatificante contemplazione delle tre divine Persone, cioè la partecipazione perfetta al Figlio nel suo rapporto con il Padre e la condivisione del vincolo vivo e personale di amore che li unisce;

—   il compiere ogni nostra azione – dal mattino alla sera, come dalla nascita alla morte – aprendola e concludendola nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo;

—  la stima più grande della sublime dignità di ogni uomo, nel quale si riflette il volto della Trinità creatrice e redentrice, così come la percepiva santa Caterina da Siena che esclamava: “Tu, Trinità eterna, sei creatore e io creatura: e ho conosciuto – perché tu me ne hai data l’intelligenza, quando mi hai ricreata con il sangue del tuo Figlio – che tu sei innamorato della bellezza della tua creatura” (Dialogo della Divina Provvidenza).

Ci è possibile ora comprendere il significato del titolo scelto per la Lettera pastorale “Nel cuore della Trinità”. All’uomo viene data questa inaudita grazia: di porre la sua “dimora” – la sua vita cioè, e il suo stesso essere – nel “cuore” della Trinità, nel segreto ineffabile della vita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Di dono assolutamente gratuito si tratta, perché è la Trinità che per puro e libero amore sceglie di porre la sua “dimora” – veramente la sua vita intima e inaccessibile – nel “cuore” dell’uomo. Gesù ci fa pienamente certi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Giovanni 14, 23). Nell’uomo in grazia il cuore della Trinità e il cuore dell’uomo battono all’unisono!

Potessimo fare nostra la Preghiera della beata Elisabetta della Trinità! “O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi completamente, per stabilirmi in te, immobile e serena come se la mia anima fosse già nell’eternità; nulla possa turbare la mia pace né farmi uscire da te, o mio Immutabile, ma che ogni minuto mi porti più addentro nella profondità del tuo Mistero! Pacifica la mia anima; fanne il tuo cielo, la tua dimora amata e il luogo del tuo riposo. Che io non ti lasci mai sola, ma che sia lì, con tutta me stessa, tutta vigile nella mia fede, tutta adorante, tutta offerta alla tua azione creatrice”.

 

Quale vera pastorale della Chiesa senza l’annuncio della Trinità?

  1. Forse una domanda è affiorata dentro di noi. È questa: a che serve quanto siamo venuti dicendo sul mistero della Santissima Trinità per la nostra azione pastorale e per i problemi concreti che essa deve quotidianamente affrontare? Rispondiamo senza esitazione: serve, serve moltissimo. Siamo nell’ordine dell’essenziale e dell’irrinunciabile! Se non altro serve – ed è questo il servizio più inquietante e stimolante – a farci capire quanto poco cristiana è, spesso, la nostra attività pastorale!

            In positivo serve a qualificare in termini di verità, di novità e di autenticità la vita e la missione della Chiesa, ossia l’annuncio della fede, la catechesi, la liturgia e la vita sacramentale, la formazione morale e spirituale. Condivido quanto ha scritto recentemente un acuto teologo: “Il Vangelo si risolve nella proclamazione del mistero della Trinità, e la salvezza consiste nel condividerlo. Nessun altro annunzio importa di più; nessun’altra esperienza è più preziosa. Quando siamo nella Trinità, siamo nel cuore di tutto. E questo è lo stato semplice, o stile di vita, del cristiano comune, il cui valore vero invisibile è tutto ‘all’interno’. La Trinità, col suo mistero, è la ‘scoperta’ o il ‘tesoro’ unico evangelico: è su di essa che la predicazione della Chiesa si deve abitualmente e gioiosamente soffermare, per rigenerarsi e per dire cose assolutamente nuove. In caso diverso è inevitabile che ci si perda nell’’umano’ naturale ed effimero; che ci si limiti agli orizzonti ristretti del ‘sociale’ e dell’assistenziale; che ci si affanni in iniziative culturali impegnative, ma alla fine sterili; che ci si dissipi in dialoghi volenterosi ma inconcludenti, che sanno creare una monotonia mortale. Ogni verità viene dopo, o consegue quella che riguarda il Padre e il Figlio, nello Spirito Santo. Anch’esse importano, ma non sono mai né le più interessanti, né le più originali. È solo una falsa impressione che siano più concrete, o più attraenti, o più urgenti” (Biffi Inos, La Trinità, un mistero che si fa vicinanza: “Avvenire” 6 luglio 1999).

In senso proprio l’intera vicenda della Chiesa – della sua evangelizzazione, della sua preghiera, della sua testimonianza di vita – si risolve nel proclamare senza sosta che Dio è Padre Figlio e Spirito Santo: un Dio solo in tre Persone. Una proclamazione, questa, che è benedizione nel segno della gratitudine gioiosa e stupita, come ci ricorda l’antifona d’ingresso della Messa della Santissima Trinità: “Sia benedetto Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio e lo Spirito Santo: perché grande è il suo amore per noi”. Per questo amore, che si è fatto storia, noi entriamo nella vita intima che è propria di Dio e che soltanto per amore ci è stata dissigillata e affidata. Anche l’azione pastorale della Chiesa deve dimorare nel cuore della Trinità. L’unica sua destinazione è la glorificazione del Dio Trino e Uno: una glorificazione che cresce nel tempo per sfociare nella lode eterna della Gerusalemme celeste. “O Trinità beata, Oceano di pace, la Chiesa a te consacra la sua lode perenne” (Inno dei Primi Vespri della SS. Trinità).

 

 

 

Parte Seconda

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LA VISITA PASTORALE E I SUOI FRUTTI DESIDERATI

 

  1. Incominciata in Cattedrale il 1° novembre 1996, Solennità di Tutti i Santi, la Visita Pastorale ai 33 Vicariati della nostra Diocesi è terminata il 30 maggio 1999. Sentita sin dall’inizio e vissuta sempre come una “grande grazia” che il Signore dava al nuovo Vescovo nell’accostare per la prima volta in maniera sistematica l’intera comunità diocesana, a Visita conclusa avverto vivo il bisogno di “rendere grazie” a Dio onnipotente e misericordioso.

Partito con l’intento di “consolare” e di “incoraggiare”, mi sono trovato io stesso sempre più “consolato” e “incoraggiato”, per aver constatato come ancora oggi, al di là dei nostri limiti, ritardi, lentezze, errori e responsabilità negative, l’amore di Cristo, effuso dal suo Spirito, continua a rendere veramente bello il volto della Chiesa di Dio che è in Genova. Nella “fotografia” che spesso mi veniva mostrata delle varie comunità parrocchiali e dei vicariati, peraltro nel segno del realismo, ho ricordato sempre e a tutti questa immancabile e affascinante bellezza spirituale che la Chiesa riceve in dono dal Signore Gesù: essa costituisce il segreto e la forza del fiorire incessante di una vera e propria santità, che si ritrova in tantissime persone – bambini, famiglie, anziani, malati, poveri, ecc. –, anche se rimane nascosta e inaccessibile allo sguardo degli uomini.

Che il Signore, soprattutto negli inevitabili momenti di stanchezza e di prova, ci doni di vedere con questi occhi di fede le nostre comunità ecclesiali: per amarle più teneramente e per servirle con instancabile fedeltà e generosità. E tutti insieme ringraziamo il Signore per le tante iniziative molto belle e significative che sono in atto nella nostra Chiesa, e prima ancora per le innumerevoli energie personali messe quotidianamente a disposizione per la crescita del Regno di Dio nel mondo.

Nello stesso tempo la Visita ha messo in luce, in un modo più diretto, alcune questioni pastorali presenti, sia pure in forme e intensità diverse, nelle nostre comunità. A titolo d’esempio ricordo le questioni che si collegano con la condizione del clero, ossia con l’avanzata età media dei sacerdoti e con la loro progressiva diminuzione: tali sono la pastorale vocazionale, il coordinamento di talune parrocchie od anche la ridefinizione dei loro confini, l’avvio a qualche forma di vita comune del clero per il servizio unitario a più parrocchie. Altre questioni riguardano la missione dei presbiteri sia nell’ambito della celebrazione dei Sacramenti – in specie il numero e ancor più la “qualità” delle sante Messe– , sia nell’ambito di una gestione amministrativa che per più motivi si fa pesante e distoglie non poco da compiti più specificamente sacerdotali. Altre questioni ancora interessano i laici e la loro attività, come una partecipazione più responsabile alla vita della comunità cristiana in particolare mediante i consigli pastorali, una più decisa valorizzazione della “ministerialità” dei laici, la giusta collaborazione e sinergia con i presbiteri e con i religiosi e religiose, una presenza di cristiani e da cristiani nel sociale e nel politico, un dialogo più cordiale e fecondo tra le parrocchie e i vari movimenti e aggregazioni ecclesiali.

Su queste e altre questioni verranno sollecitate le riflessioni e i suggerimenti dei Vicari, dei Consigli diocesani – presbiterale e pastorale –, la Consulta delle aggregazioni laicali, come pure quando sarà opportuno o necessario lo studio di Commissioni per questo istituite e l’emanazione di qualche “decreto” arcivescovile.

 

  1. Già ora però, in forza della responsabilità che mi è stata affidata, sento il dovere di offrire all’intera comunità diocesana una serie di orientamenti e indicazioni che ho raggruppato attorno a quelle che si possono definire le “strutture portanti” della vita e missione della Chiesa, in ordine a far sì che la Visita Pastorale produca i suoi frutti sperati.

Queste strutture rimandano, nel loro fondamentale contenuto e nella loro ispirazione profonda, alle quattro Costituzioni del Concilio Vaticano II (Dei verbum sulla parola di Dio, Sacrosanctum concilium sulla liturgia, Lumen gentium sulla Chiesa, Gaudium et spes sul rapporto Chiesa-mondo), nel quale “la Chiesa, proprio per essere fedele al suo Maestro, si è interrogata sulla propria identità, riscoprendo la profondità del suo mistero di Corpo e di Sposa di Cristo” (Tertio millennio adveniente, 19). In tal modo, scrive il Papa, il Concilio “ha certamente recato un contributo significativo alla preparazione di quella nuova primavera di vita cristiana che dovrà essere rivelata dal Grande Giubileo, se i cristiani saranno docili all’azione dello Spirito Santo” (Ibid., 18).

È secondo questa profonda corrispondenza tra il Concilio e il Giubileo che vanno considerati gli “orientamenti” e le “indicazioni” qui presentati: proprio attuando queste linee emergenti dalla Visita Pastorale, la nostra Chiesa accoglierà l’appello del Giubileo e porterà alla maturazione della piena estate la primavera del Concilio (cfr. l’allocuzione di Giovanni Paolo II ai nuovi Cardinali il 21 febbraio 1998); nello stesso tempo potrà presentarsi al mondo di oggi come il Signore da sempre la ama e la vuole, ossia come “un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (san Cipriano, De oratione dominica 23), come uno specchio in terra della Santissima Trinità.

Per questi “orientamenti e indicazioni” ho preferito una formulazione di carattere generale. Questa peraltro si imponeva da sé, sia per la forte eterogeneità di cui sono segnate le nostre comunità cristiane, sia per spingere tutti a una loro realizzazione creativa e più mirata in rapporto alle situazioni locali. È evidente però che questi “orientamenti e indicazioni” sono dati a tutta la Diocesi come tale in ordine ad assicurare e a promuovere sempre più una pastorale organica e unitaria.

Le quattro serie di orientamenti e indicazioni sono introdotte con un breve riferimento alla Parola di Dio: come a dire che tutti, pastori e fedeli, siamo invitati all’obbedienza pronta e amorosa al disegno di Dio sulla Chiesa, ai suoi voleri e ai suoi desideri. Decisivo per tutti e per ciascuno è il monito che ci viene dall’Apocalisse: “Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (2, 7).

 

 

Ascoltava la sua parola

 

  1. “Maria, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola” (Luca 10, 39).

Maria, sorella di Marta, sta seduta ai  piedi di Gesù. Era questo, allora, l’atteggiamento tipico del discepolo nei riguardi del maestro. E ascolta la parola di Gesù, che è il Maestro. Sì, ascolta le sue parole, che sono “parole di vita eterna” (Giovanni 6, 68); ma Gesù stesso è la Parola di Dio, parola fatta carne. Così l’ascolto è qualcosa di vivo e di personale, perché è incontro reale e comunione profonda con Gesù.

Maria è l’icona della Chiesa, comunità che sta in religioso ascolto della Parola di Dio (cfr. Dei verbum, 1), e insieme icona del cristiano nella sua fondamentale e costitutiva dimensione di “discepolo di Gesù”.

Siamo tutti invitati a riscoprirci come discepoli: il discepolato è grazia che ci viene donata e responsabilità che ci viene affidata. Per questo siamo sollecitati a porre la Parola di Dio a fondamento e nutrimento della nostra fede e a metterla al centro del nostro cuore di credenti: “La tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore” (Geremia 15, 16).

Dobbiamo allora impegnarci tutti, e ciascuno per la propria parte, all’ascolto della Parola:

 

  1. l) nella Liturgia, nella quale con la dovuta preparazione e con spirito di fede dev’essere “proclamata” in modo veramente degno e dev’essere “commentata” dal sacerdote celebrante, specie con l’omelia della Santa Messa (con una breve riflessione possibilmente anche nei giorni feriali); in particolare i fedeli potranno essere favoriti nell’ascolto della Parola sia dalla scelta accurata e dalla adeguata preparazione dei “lettori” sia dalla cura – ove necessario – per la qualità dell’amplificazione, così come dovranno portare il dovuto rispetto alla Parola di Dio con l’ essere presenti quando questa viene proclamata e commentata: la comunione con la Parola, infatti, è premessa e condizione per la comunione con il Pane di vita.

2) Nella preghiera: nella sua struttura di incontro e di dialogo con Dio, la preghiera  scaturisce e si sviluppa come “risposta” a Lui che “nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Esodo 33,11; Giovanni 15,14-15) (Dei verbum, 2): non è possibile che noi parliamo a Dio se non ascoltiamo Dio che parla a noi.

3) Nella catechesi, specie per i bambini e i ragazzi che, aiutati da genitori e catechisti formati e competenti, vengono iniziati alla vita cristiana ricevendo i Sacramenti della Riconciliazione, della Comunione e della Cresima.

4) Nella formazione di una fede adulta che diventa “cultura”, ossia un modo convinto di pensare e di scegliere secondo il Vangelo e non secondo il “mondo”:  i giovani e gli adulti devono approfondire la conoscenza della Parola di Dio, per poter trovare in essa la risposta vera e certa agli interrogativi della vita-sofferenza-morte, il criterio cristiano di valutare e di operare con convinzione e libertà in una società e in una cultura spesso antievangeliche e talvolta antiumane, la risposta che prontamente dev’essere data a chiunque domanda “ragione della speranza” che è nei credenti (cfr. 1 Pietro 3, 15), la soluzione ai diversi problemi del mondo attuale specialmente con l’aiuto di quella dottrina sociale della Chiesa che è parte integrante e irrinunciabile dell’evangelizzazione (cfr. Centesimus annus, 5).

5) Nella lettura e nello studio, in forme e gradi diversi, della Sacra Scrittura, secondo l’esplicita richiesta del Vaticano II: “Il santo Concilio esorta con forza e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere ‘la sublime scienza di Gesù Cristo’ (Filippesi 3, 8) con la frequente lettura delle divine Scritture. ‘L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo’ (san Gerolamo)” (Dei verbum, 25).

Ora tra le forme di accostamento delle Sacre Scritture è da valorizzare con più coraggio pastorale la “lectio divina”. L’ho voluta e io stesso l’ho guidata in Cattedrale una volta al mese, così come intendo continuarla durante l’Anno Santo: questo per offrire un modello da riprendersi nelle comunità e nei gruppi, come peraltro è già avvenuto nell’itinerario di discepolato per l’iniziativa diocesana “Il Vangelo sia con te”.

 

  1. Ecco una prima serie di “orientamenti e indicazioni” sull’ascolto della Parola di Dio come momento essenziale della vita e della crescita delle nostre comunità cristiane. Non possiamo sottovalutare questo momento sia per il presente che per il futuro della Chiesa. Infatti, l’ascolto maturo della Parola di Dio è la condizione assolutamente necessaria perché la vita cristiana sia veramente vita di fede e perché il cristiano sia autenticamente discepolo e testimone di Cristo Signore. Inoltre, alla soglia del terzo millennio le comunità cristiane sono chiamate a comunicare alle generazioni che verranno il bene più prezioso che il Signore ha dato loro, il bene della fede: ma non è possibile comunicarlo ad altri se questo bene non è amato, stimato, conosciuto, annunciato e testimoniato nella gioiosa fierezza di essere credenti e nella coerenza coraggiosa della vita di ogni giorno.

 

Si aprirono i loro occhi e lo riconobbero

 

  1. “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” (Luca 24, 30-31).

I due discepoli di Emmaus “riconoscono” Gesù allo spezzare il pane, cioè nel rito dell’Eucaristia. E nel “rito”, mentre lo incontrano, confessano l’”identità” di Gesù: è il Figlio di Dio fatto uomo che si consegna liberamente alla morte di croce (dona tutto se stesso nel suo corpo e nel suo sangue) e che la potenza del Padre fa risorgere per la vita e la salvezza del mondo.

I due discepoli sono immagine viva della comunità ecclesiale, e in essa del cristiano, che “riconosce” e quindi confessa Gesù crocifisso e risorto presente nell’Eucaristia, e nello stesso tempo riconosce e confessa la sua propria “identità” di Sposa amata e perdonata dallo Sposo (Gesù), che per lei muore sulla croce e ripropone il suo dono d’amore nell’Eucaristia: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa…” (Efesini  5, 25-26).

Non c’è, dunque, comunità cristiana senza Eucaristia! Per questo siamo tutti invitati a riscoprire e vivere la centralità dell’Eucaristia nella vita e nella missione della Chiesa e del cristiano.

Dobbiamo allora impegnarci tutti, e ciascuno per la propria parte, a coltivare concretamente il nostro amore all’Eucaristia, ai Sacramenti e alla preghiera, come momenti costitutivi e decisivi della nostra vita cristiana.

 

1) L’Eucaristia

  1. Se è importante l’impegno alla “frequenza” alla Santa Messa – una frequenza fedele e generosa secondo la legge della Chiesa nostra Madre e ancor più secondo le esigenze dell’amore di Cristo –, ancora più importante è l’impegno ad una vera e propria “partecipazione”, così che i fedeli “partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente” (Sacrosanctum concilium, 48) e siano coinvolti in modo più pertinente e attualizzato alla preghiera universale dei fedeli e all’offertorio.

È necessario allora che la nostra pastorale punti con più coraggio, entusiasmo e costanza ad assicurare – come a uno dei beni più preziosi della vita delle comunità cristiana – alla “qualità” della celebrazione eucaristica. E questa esige, tra l’altro:

— una partecipazione integrale, dall’inizio alla fine, nel segno della puntualità e del tempo donato volentieri al Signore;

— un amore più vivo e una cura più intensa per il “rito” liturgico, così che possa veramente diventare un “segno” del  “grande Mistero” che si compie, difendendolo da tutto ciò che sa di improvvisato, di trasandato, di sciatto, di sbrigativo…; in particolare la liturgia dev’essere “vera”, e perciò stesso “bella” e “gioiosa”: non certo della gioia scomposta e rumorosa, ma della gioia che è riflesso del gaudio spirituale che scaturisce dall’incontro con Dio e con il suo mistero;

— una fede convinta e sentita nella Presenza Reale di Gesù sull’altare in corpo, sangue, anima e divinità: una fede che si esprime in precisi gesti e atteggiamenti, come la genuflessione, il silenzio, il raccoglimento, la calma, la preghiera, il canto sacro e la musica liturgica, …;

— un’adeguata preparazione e ringraziamento alla Santa Messa, perché questa risulti veramente il centro di una decorosa celebrazione;

— un giusto spazio all’Adorazione e alla Visita eucaristiche: come Gesù ha esaudito la richiesta dei discepoli di Emmaus “Resta con noi perché si fa sera” (Luca 24, 29), così ora tocca a noi “restare con Lui”! È nel desiderio di offrire un segno a tutte le parrocchie che ho voluto per ogni giorno l’Adorazione eucaristica pomeridiana nella Cattedrale. In realtà, una comunità parrocchiale non può divenire un’autentica comunità eucaristica, se abitualmente si accontenta della sola Messa!

I sacerdoti sanno bene che nel problema della “qualità” della celebrazione eucaristica rientra anche il “numero” delle Messe nella parrocchia e nel Vicariato. Mentre mi riprometto di ritornare con uno specifico “decreto” sull’argomento, già sin d’ora sollecito caldamente i sacerdoti di uno stesso Vicariato a trovare, insieme con il Consiglio Pastorale Vicariale, una soluzione pastoralmente più “ragionevole” e a dimensione propriamente “vicariale” dell’orario delle Messe, con un orario che sia rispettoso del significato specificamente comunitario dell’Eucaristia, delle esigenze giuste dei fedeli e delle disponibilità reali dei sacerdoti.

 

2) Gli altri Sacramenti

  1. L’Eucaristia è la radice e il compimento degli altri Sacramenti, nel senso che questi derivano dal sacrificio d’amore di Gesù in croce e ad esso conducono e nel loro insieme costituiscono i segni e gli strumenti efficaci della vita divina della grazia donata da Dio all’uomo nel suo cammino spirituale personale ed ecclesiale.

Chiedo ai sacerdoti e ai fedeli laici un più grande impegno pastorale:

— per la preparazione remota dei genitori al Battesimo dei figli, sia instaurando durante la gravidanza rapporti di amicizia e solidarietà con la famiglia del nascituro, sia istituendo e valorizzando i “Corsi di preparazione al Battesimo”;

— per la preparazione dei ragazzi alla Cresima, sollecitando un maggior coinvolgimento dei genitori, dei padrini e madrine e degli educatori e un inserimento adeguato nella comunità cristiana;  così pure per una seria preparazione specifica, con un adeguato numero di incontri, alla Cresima degli adulti;

— per la preparazione al Matrimonio cristiano, sia anticipando il più possibile il tempo stesso di preparazione, sia proponendo un cammino adeguatamente prolungato di vera evangelizzazione come necessaria condizione a celebrare nella fede il sacramento, sia assicurando ai futuri sposi un rapporto di maggiore accoglienza, dialogo, condivisione, il solo capace di testimoniare la bellezza e la serietà dell’ideale cristiano del matrimonio e  di ottenere una risposta di fede in termini di più matura responsabilità (al riguardo rimandiamo agli Orientamenti e disposizioni per la comunità diocesana La preparazione particolare e immediata al sacramento del matrimonio, 1995);

— per la celebrazione del sacramento della Penitenza e della Riconciliazione: è da richiamare il precetto della Chiesa di confessarsi “almeno una volta all’anno” (can. 989), di fronte al fenomeno di non pochi cristiani che, pur frequentanti abitualmente la Chiesa, non si confessano magari da qualche anno e si comunicano tranquillamente. È da richiamare, inoltre, la necessità che siano gli stessi educatori a dare ai ragazzi e ai giovani l’esempio del confessarsi: diversamente come è possibile essere educatori cristiani autentici?

Chiedo pazienza ed insieme coraggio per aiutare noi stessi e gli altri a “riscoprire” e a “vivere” questo sacramento, che è necessario per una vera vita cristiana e per la stessa celebrazione del Giubileo e per l’acquisto della “indulgenza”: con il perdono dei peccati, il sacramento ci dona la gioia di “sentire”  il Padre che nel suo amore misericordioso ci riabbraccia, ci rende nuovamente partecipi della sua vita, ci testimonia  la sua immutata stima, ci ricarica di fiducia in noi stessi,  ci fa veramente liberi e ci spinge a riprendere in spirito di gratitudine e riparazione il cammino della nostra vocazione e missione nella Chiesa e nel mondo. È nella celebrazione del sacramento della Penitenza e della Riconciliazione che giunge a compimento, per il singolo cristiano peccatore e convertito, quella “purificazione della memoria” che ripetutamente il Papa ci presenta come esigenza e segno del Giubileo.

 

3) La preghiera

  1. Già i Sacramenti stessi sono “preghiera”, anzi sono la preghiera per eccellenza di Gesù sommo sacerdote e della Chiesa popolo sacerdotale; ma chiedono di essere preparati e seguiti dalla preghiera personale, familiare e comunitaria.

Due raccomandazioni pastorali desidero rivolgere sull’educazione alla preghiera, così come ci sono chiaramente suggerite dall’introduzione evangelica al “Padre nostro”. Scrive Luca: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: ‘Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli’” (Luca 11, 1). Sono sì i discepoli a chiedere che Gesù insegni loro a pregare, ma lo fanno solo dopo essere stati colpiti dal suo esempio:  l’hanno visto in atteggiamento di preghiera e ne sono rimasti affascinati.

La prima raccomandazione riguarda lavisibilitàdella preghiera, specialmente da parte dei sacerdoti e delle persone di vita consacrata. I fedeli hanno diritto di vedere l’esempio dei loro preti: li vogliono vedere in chiesa, davanti al Santissimo, in preghiera, e non di corsa per le “funzioni sacre”. E se questo i nostri fedeli non lo chiedessero, non ci sarebbe qui motivo di seria riflessione?

La seconda raccomandazione si rivolge a tutti coloro che, nelle nostre comunità cristiane, hanno il compito di essere “educatori” alla preghiera. Genitori, sacerdoti, religiosi, catechisti, educatori devono sentire più viva la loro responsabilità al riguardo, offrendo tempo e disponibilità, luoghi e cammini spirituali per educare, soprattutto i ragazzi e i giovani, alla preghiera. Se ci interrogassimo sulla causa di una certa sterilità del nostro impegno educativo ai molti valori umani e cristiani della vita, non dovremmo forse trovarla nella trascuratezza se non nell’assenza di questa fondamentale opera educativa: pregare noi e aiutare gli altri a pregare?  È veramente in questione un aspetto essenziale dell’essere e della vita della Chiesa, che è “la dimora di Dio con gli uomini” (Apocalisse 21, 3) e “la casa della preghiera” (Matteo 21, 13).

 

  1. Ecco una seconda serie di “orientamenti e indicazioni” sull’Eucaristia, sui Sacramenti e sulla preghiera. Non è difficile accorgersi della loro importanza spirituale e pastorale, anzi del loro costitutivo rapporto con l’essenza stessa della Chiesa e del cristiano, che il Signore ha formato come “popolo sacerdotale” chiamato a “ offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (1 Pietro 2, 5). Una comunità cristiana che prega è una benedizione per il mondo, perché rappresenta un richiamo semplice e forte a quei valori spirituali e trascendenti di cui l’uomo, se è sincero col proprio cuore, sente di avere immenso bisogno.

La crisi più grave e pericolosa che sta attraversando il nostro mondo occidentale è data dal diffondersi e dal radicarsi dell’aridità spirituale, del vuoto di preghiera, della chiusura al mistero. La risposta, allora, non può venire se non da una rinnovata scoperta di Dio, della sua ineffabile vicinanza ed insieme della sua formidabile trascendenza, mediante “il silenzio che adora”, secondo la felice espressione del Papa. E ciò interessa anzi tutto la Chiesa stessa e i cristiani. Scrive, infatti, nell’affascinante enciclica Orientale lumen: “Dobbiamo confessare che abbiamo tutti bisogno di questo silenzio carico di presenza adorata: la teologia, per poter valorizzare in pieno la propria anima sapienziale e spirituale; la preghiera, perché non dimentichi mai che vedere Dio significa scendere dal monte con un volto così raggiante da essere costretti a coprirlo con  un velo (cfr.. Esodo 34, 33) e perché le nostre assemblee sappiano far spazio alla presenza di Dio, evitando di celebrare se stesse; la predicazione, perché non si illuda che sia sufficiente moltiplicare parole per attirare all’esperienza di Dio; l’impegno, per rinunciare a chiudersi in una lotta senza amore e perdono. Ne ha bisogno l’uomo di oggi che spesso non sa tacere per paura di incontrare se stesso, di svelarsi, di sentire il vuoto che si fa domanda di significato; l’uomo che si stordisce nel rumore. Tutti, credenti e non credenti, hanno bisogno di imparare un silenzio che permetta all’Altro di parlare, quando e come vorrà, e a noi di comprendere quella parola” (n. 16).

 

Questo è il mio comandamento

 

  1. Riascoltiamo alcune parole dette da Gesù durante l’ultima Cena: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Giovanni 15, 12-13). Prima però di dare il suo comandamento, Gesù aveva lavato i piedi agli apostoli e così aveva concluso: “Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Giovanni 13, 13-15).

L’esempio di Gesù è, dunque, quello dell’amore, dell’amore proprio del servo, del servo che la vita. Ora questo amore è sempre vivo nella Chiesa, nella quale lo Spirito Santo effonde la carità di Cristo e la affida a ogni discepolo come “comandamento nuovo” del Signore. Con quest’amore noi siamo al “cuore” della vita della Chiesa e del cristiano, così come quest’amore è stato il cuore stesso della vita e della missione di Gesù. Senza quest’amore non c’è autentica comunità cristiana: questa, in verità, sarebbe un “nulla”, come scrive Paolo: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla” (1 Corinti 13, 1-2).

Non sono nulla”! Sono tre parole formidabili, sufficienti per dirci l’assoluta necessità della carità nella vita e nell’azione delle nostre comunità cristiane, e dunque per convincerci che questo è un punto nevralgico e decisivo sul quale misurare tutta l’attività pastorale. In un certo senso, tutti gli “orientamenti” e le “indicazioni” della Visita Pastorale si strutturano e si ordinano sul dono e sul comandamento della carità! A questo intendevo riferirmi tutte le volte che definivo la parrocchia (e in qualche modo ogni realtà di Chiesa) come “famiglia di famiglie”, dal momento che la famiglia è il luogo dell’amore.

Dobbiamo allora impegnarci tutti, e ciascuno per la propria parte, a dare più convinta ed energica risposta a tre fondamentali esigenze della carità cristiana.

 

Carità e perdono

  1. La carità nasce dal perdono e cresce col perdono, è sempre frutto e fonte di riconciliazione. È in questione anzi tutto il perdono e la riconciliazione che Dio per primo e gratuitamente ci dona. Ma, a sua volta, Dio dà a noi la grazia di essere suoi imitatori, impegnandoci a inserire il perdono e la riconciliazione nelle nostre relazioni umane: in famiglia, con i vicini, negli ambienti di lavoro e di vita, in ogni spazio di socialità. Con il Signore non possiamo affatto barare, quando nella preghiera gli diciamo: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Matteo 6, 12).

Invidie ed odi, durezze e maldicenze, incomprensioni e derisioni, intolleranze ed offese, tensioni e contrapposizioni si ritrovano anche all’interno delle nostre comunità e gruppi, delle nostre famiglie cristiane e tra noi stessi credenti. Ma allora quale “credibilità” può ancora rivendicare la Chiesa nella sua missione evangelizzatrice verso il mondo, se la “lieta notizia” dell’amore paterno di Dio viene contraddetta e falsificata dal mancato amore fraterno tra noi? E non è, forse, questa mancanza di amore che è capace di perdonare la ragione dell’aridità di tanto nostro agitarci pastorale? Quale reale “valore” possono avere le nostre prediche, la celebrazione delle nostre Messe, e altre iniziative pastorali delle nostre comunità?

 

Carità e unità

  1. La carità, proprio perché perdona e riconcilia, opera la comunione e costruisce l’unità nella Chiesa e nella società. Anche questo è un aspetto essenziale del volto che le nostre comunità devono avere per essere veramente ecclesiali, a immagine e in continuità con il volto radioso della Chiesa delle origini, secondo la ripetuta testimonianza di Luca negli Atti degli Apostoli: “La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune” (Atti 4, 32; cfr. 2, 42ss).

Lo sappiamo: questa comunione è dono dello Spirito Santo, vincolo personale d’amore tra il Padre e il Figlio e anima viva della Chiesa, ed insieme è compito affidato al nostro impegno libero e responsabile. È una comunione che dev’essere vissuta all’interno” delle nostre comunità e realtà ecclesiali, accogliendoci e stimandoci a vicenda, crescendo nell’umiltà e nella pazienza reciproca, proprio come ci ricorda Paolo: “Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda… Non rendete a nessuno male per male” (Romani 12, 10. 17), imparando a collaborare e a camminare insieme.

In particolare desidero sottolineare questo “camminare insieme”, che non soltanto dice lo stile di vita e di azione di una comunità cristiana, ma costituisce l’espressione più bella e significativa dell’ essere “un cuor solo e un’anima sola”. Possiamo ricordare qui come emblematico l’episodio evangelico di Simon Pietro e Giovanni che il mattino di Pasqua “correvano insieme tutti e due” verso il sepolcro: quest’ultimo corre “più veloce” di Pietro e quindi giunge “per primo” al sepolcro, però non vi era entra, perché vuole che arrivi Simon Pietro. Tocca a lui entrarvi per primo. Non è forse questo un invito perché la comunità cristiana, che pure deve avere membri che corrono e in qualche modo trascinano gli altri, sappia aspettare tutti e procedere insieme? Sono necessari l’incontro, il dialogo e la comunione  non soltanto tra i giovani e gli anziani, ma anche tra le diverse sensibilità, impostazioni, esperienze e iniziative pastorali.

La comunione vissuta all’interno tende per natura ad estendersi “verso l’esterno”, o meglio sente e vive questo suo stesso “interno” secondo l’orizzonte ampio e articolato dell’intera Chiesa: da una parrocchia all’altra, al Vicariato, alla Diocesi, alla Chiesa universale. Certo, è una comunione che viene vissuta spiritualmente (come “comunione dei santi”), ma che deve anche manifestarsi e attuarsi visibilmente nell’apertura, nel dialogo, nello scambio e nella collaborazione tra le diverse comunità cristiane. Pastoralmente dobbiamo continuare a lavorare perché il valore della comunione tra le parrocchie entri sempre più nella coscienza e nei comportamenti dei cristiani, sia presbiteri che laici. Non è certo inutile ricordare che, come esiste l’egoismo dell’individuo che si chiude in se stesso, così esiste anche l’egoismo della singola parrocchia, giungendo a delle forme inveterate epperò stolte e incomprensibili di “campanilismo”. Soprattutto è necessario ricordare che anche la parrocchia come tale, come già la singola persona, deve obbedire alla legge dell’amore, che chiede di “amare la parrocchia altrui come la propria!”.

Ciò che abbiamo ora detto della parrocchia lo dobbiamo ripetere anche dei Vicariati, così come dei vari gruppi, associazioni, movimenti, comunità, sia al loro interno e fra loro, sia in rapporto alle comunità ecclesiali. L’azione dello Spirito di Cristo che accompagna di giorno in giorno la sua Chiesa si rivela oggi provvidenziale: dovrebbe, infatti, essere definitivamente superata la stagione delle perplessità, delle paure, delle chiusure e delle incomprensioni. La missione  – unica e universale – della Chiesa è la finalità sovrana e la passione condivisa che generano comunione e collaborazione.

Senza dimenticare, infine, che la comunione della Chiesa che si sviluppa “verso l’esterno”, comporta anche una presenza di dialogo, di condivisione, di collaborazione nei riguardi della società umana: della città, del paese, del quartiere, dell’ambiente di vita. Qui, nelle situazioni di maggior povertà sociale, morale e spirituale, ci sono ferite e piaghe che solo la carità di Gesù Cristo – rivissuta dalla compassione che non condanna e dal servizio che nulla chiede in contraccambio – può sanare, aprendo a una nuova speranza.

 

Carità, opere e vita

  1. La carità è servizio operoso: dal cuore deve passare alle opere, anzi a uno stile di vita. È questo l’ammonimento dell’evangelista Giovanni: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1 Giovanni 3, 18).

La primissima carità (anzi è in questione qui la stessa giustizia) si esprime nel rispetto della dignità personale di ogni uomo, in qualsiasi condizione e situazione di vita venga a trovarsi: infatti l’immagine di Dio scolpita nel suo cuore può essere sfigurata, ma non mai cancellata, ed esige sempre e da parte di tutti venerazione. Per questo la carità deve rivolgersi a tutti senza alcuna discriminazione, ma nello stesso tempo deve avere una predilezione verso i più poveri: poveri da intendersi, ovviamente, non solo in senso economico, come risulta dalle classiche opere di misericordia corporali e spirituali.

Un impegno preciso e qualificante che deve risplendere in ogni comunità cristiana è dunque la scelta preferenziale per i poveri, alla quale dobbiamo educarci con maggiore convinzione,  entusiasmo e insistenza per essere coerenti con le chiarissime esigenze del Vangelo. Ritroviamo queste esigenze, nella loro verità e bellezza, nelle parole programmatiche di san Vincenzo de’ Paoli: la carità “è una grande signora: bisogna fare ciò che comanda”; i poveri “sono i nostri signori e padroni” e “il servizio dei poveri deve essere preferito a tutto. Non ci devono essere ritardi” (Lettera 2546).

La carità operosa è un dono dello Spirito e un comandamento non solo per il singolo cristiano, ma anche per la comunità come tale. Questa allora deve sentirsi concretamente chiamata, tra l’altro, a promuovere, sostenere e “motivare” la partecipazione attiva alle diverse forme di volontariato, e in particolare a rendere sempre più vive – e anche più giovanili – le strutture della carità, come sono la Caritas, la San Vincenzo, il Centro di ascolto, il Consultorio familiare, i vari servizi verso gli anziani, i malati, i poveri, gli emarginati, i nomadi, ecc.

 

  1. Non ci è lecito dimenticare l’intimo rapporto tra l’Eucaristia e la carità: la “verità” della celebrazione eucaristica delle nostre comunità cristiane non può essere “falsata”, ossia negata, dall’egoismo che chiude il cuore e le mani al fratello bisognoso, ma deve risplendere con la solidarietà concreta. Sempre memori dell’obolo della vedova, che “nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere” (Luca 21, 4), non possiamo non interrogarci sulla cosiddetta “offerta” durante la celebrazione eucaristica, sia nella sua consistenza sia nella sua destinazione più chiaramente orientata ai bisogni della comunità e alle esigenze della carità.

Siamo sinceri: il rischio in questo gesto liturgico di rasentare il ridicolo è tutt’altro che ipotetico! Per superarlo occorre un’opera educativa delicata e paziente che aiuti a riscoprire il legame tra Eucaristia, Domenica e carità nelle sue diverse forme, compresa anche questa. E perché allora  non concentrare l’offerta liturgica dei fedeli nel “Giorno del Signore”? La comunità cristiana, scrive il Papa, ha “il dovere di fare dell’Eucaristia il luogo dove la fraternità diventi concreta solidarietà, dove gli ultimi siano i primi nella considerazione e nell’affetto dei fratelli, dove Cristo stesso, attraverso il dono generoso fatto dai ricchi ai più poveri, possa in qualche modo continuare nel tempo il miracolo della moltiplicazione dei pani” (Lettera apostolica Dies Domini, 71).

          

Ecco, in sintesi, una terza serie di “orientamenti e indicazioni” sulla carità: nella vita cristiana nulla è più concreto, più preciso ed esigente di questa carità. Nella comunità cristiana sacerdoti e laici devono lasciarsi seriamente provocare dalle situazioni di povertà che quotidianamente incontrano e darvi risposta.

 

Andate in tutto il mondo

 

  1. Leggiamo nel Vangelo di Marco: “Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni” (Marco 3, 14-15). Così agli inizi della vita pubblica di Gesù. E al termine ecco il suo mandato missionario: “Gesù disse loro: ‘Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura…’” (Marco 16, 15).

I Dodici sono sì gli apostoli, ma in questo contesto essi sono anche l’icona vivente della Chiesa, di una comunità cioè chiamata ad una singolare intimità di amore e di vita con Gesù e da lui mandata dappertutto ad annunciare la “lieta notizia” del Regno di Dio, ossia dell’amore salvifico di Dio operante nella storia in Gesù. Non c’è Chiesa senza missionarietà, non c’è cristiano che non sia missionario. E la missione è l’evangelizzazione, l’annuncio e la testimonianza del Vangelo di Gesù, il Vangelo vivente e personale di Dio. La Chiesa vive solo se accoglie e comunica il Vangelo. L’evangelizzazione è così la stessa ragione d’essere, la passione che inquieta e affascina, la grazia e la gioia della Chiesa e del cristiano.

Dobbiamo allora impegnarci tutti, e ciascuno per la propria parte, ad educare le comunità parrocchiali a non accontentarsi dell’esistente – è sempre troppo poco, privo di incisività culturale e di visibilità operativa sui problemi concreti della vita personale e ancor più sociale -, ma a cercare sempre spazi nuovi e vie nuove, accogliendo senza paura quel dinamismo missionario di evangelizzazione che è immesso nella Chiesa dalla potenza dello Spirito Creatore. Il grido dell’apostolo Paolo: “Guai a me se non predicassi il vangelo!” (1 Corinzi 9, 16) dovrebbe risuonare senza sosta e con forza in ogni comunità cristiana e nel cuore di ogni credente!

In termini concreti, anche se ancora generali, ciò significa che le comunità devono impegnarsi innanzi tutto sul loro fronte interno, perché i battezzati per primi si sentano chiamati a convertirsi realmente, divenendo così cristiani coerenti, partecipi e propositivi; e poi – meglio, nello stesso tempo – sul loro fronte esterno, perché i credenti non si stanchino di compiere i più diversi tentativi per presentare a quanti sono assenti, indifferenti e ostili alla fede il Vangelo annunciato e vissuto.

D’altra parte, perché la nuova evangelizzazione sia veramente il centro vivo e la forza propulsiva della pastorale missionaria delle nostre comunità cristiane, resa oggi quanto mai necessaria e urgente anche presso di noi dalla mutata condizione religiosa, occorre che ci impegniamo ad elaborare, con saggio e coraggioso discernimento evangelico, una vera e propria strategia pastorale, insieme  culturale e operativa. Questa dovrà riservare una specifica e particolare attenzione ai contenuti da annunciare, ai soggetti o protagonisti dell’agire pastorale, agli ambienti di vita da raggiungere e alla metodologia da seguire.

L’importanza di questa strategia pastorale mi chiede di invitare tutti a sostare in modo più abituale sull’argomento. In questa sede mi limito a rioffrire alcune linee fondamentali, rimandando per un loro approfondimento alle “Linee per una pastorale organica e unitaria dell’Arcidiocesi di Genova” del triennio ora trascorso e, in modo più sintetico e programmatico, alla prima Lettera che ho rivolto alla Comunità Diocesana “Un anno di vita insieme ‘95-96”.

 

I contenuti dell’annuncio

  1. Quanto ai contenuti da annunciare – lo dobbiamo ripetere continuamente senza stancarci di fronte ad una facile “caduta” sociologica dell’attività pastorale – non ci si può limitare a proporre i valori umani, anche se necessari e utili: sappiamo peraltro che la Chiesa “esperta in umanità” ha sempre lavorato e sempre lavorerà per l’umanizzazione della società. Si deve puntare, con una convinzione umile grata gioiosa e audace al cuore del messaggio cristiano, al centro vivo della “lieta notizia”, ossia alla persona e all’opera di Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo e unico Salvatore del mondo. Gli uomini hanno “diritto” di sentirsi “dire” dalla Chiesa e dai cristiani le parole nuove e originali del Vangelo: il resto lo sanno già o comunque lo possono sapere anche senza il Vangelo.

Come Chiesa dobbiamo seguire l’esempio di Pietro. Allo storpio, posto ogni giorno presso la porta “Bella” del tempio di Gerusalemme a chiedere l’elemosina, l’apostolo dice: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!” (Atti 3, 6). E in virtù di quel “nome” lo guarisce. Sì, il nome di Gesù è il compendio e il vertice dell’annuncio del Vangelo. Come non interrogarci: noi – preti, frati, suore, laici, donne, uomini – non siamo forse troppo timidi e riservati nel nostro parlare “cristiano”? Ma se non abbiamo la gioia nel cuore e la forza sulle labbra di pronunciare il nome di Gesù, siamo ancoraevangelizzatori”? È vero che il senso compiuto delle parole con le quali il Signore Gesù inchioda la nostra paura – di più la nostra vergogna – si ha nella “testimonianza” della vita, ma è altrettanto vero che questa comporta anche l’annuncio fatto con la “parola”, superando anche il pregiudizio – che diventa alibi – della nostra incapacità o indegnità: “Chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il Figlio dell’uomo, quando verrà nella gloria sua e del Padre e degli angeli santi” (Luca 9, 26).

 

Soggetti dell’azione pastorale

  1. Soggetti o protagonisti dell’azione pastorale nella Chiesa, sappiamo, sono tutti i battezzati, nessuno escluso; sono tutti i battezzati, secondo la loro vocazione e condizione di vita. E lo sono come singoli e come comunità. In tal senso i doni e i ministeri, i compiti e le responsabilità nella Chiesa sono diversi e insieme complementari; esigono quindi di rimanere coordinati tra loro. Di qui la gioia comune per il “proprio” dono e per il dono “altrui” e per il loro dispiegarsi “insieme”.

In particolare, due certezze della nostra fede vogliamo ribadire e rimotivare. La prima riguarda il ministero proprio dei presbiteri, ossia di coloro che a nome e con l’autorità di Gesù guidano la vita di fede e di amore delle comunità cristiane. La situazione della nostra Diocesi, analoga a quella di altre, ci sollecita a un nuovo impegno, non solo per l’invecchiamento e la diminuzione dei sacerdoti, ma anche per la grande stima che dobbiamo avere per la bellezza e la preziosità del sacerdozio, come pure per la convinzione che Dio è instancabilmente generoso nel gettare il seme della vocazione sacerdotale: una meravigliosa potenzialità che attende risposta!

Di qui l’urgenza di rilanciare la pastorale vocazionale, in specie per le vocazioni al ministero ordinato e alla vita consacrata. “Che cosa dobbiamo fare?” (Atti 2, 31). Ecco alcune linee operative precise, alle quali prestare con più vivo senso di responsabilità la nostra comune attenzione.

—   Già noi ascoltiamo, ma ancor più dobbiamo ascoltare, l’invito suadente ed esigente di Gesù, che chiede di “pregare il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe” (Matteo 9, 38). “Questa preghiera, cardine di tutta la pastorale vocazionale, deve impegnare non solo i singoli ma anche le intere comunità ecclesiali” (Pastores dabo vobis, 38). In tutte le comunità parrocchiali e nella pastorale giovanile possiamo e dobbiamo fare di più, servendoci in modo abituale delle intenzioni della “preghiera dei fedeli” e dell’adorazione eucaristica mensile anzi possibilmente settimanale, come pure curando la Giornata Mondiale di preghiera per le Vocazioni.

—   Sacerdoti, genitori, educatori siamo chiamati a proporre senza paura, con l’esempio e la parola, ai ragazzi e ai giovani forti ideali di vita, come il dono totale di sé per amore di Dio e dei fratelli, e quindi la pronta disponibilità a seguire la strada indicata dal Signore: è il Signore che chiama raggiungendo personalmente l’intimo del cuore, ma nello stesso tempo egli vuole servirsi anche della voce umana dei suoi “mediatori”. Ma se questi tacciono? Da parte sua il Seminario diocesano è pienamente disponibile a realizzare nelle parrocchie una “settimana vocazionale”, come pure  – nella misura del possibile – ad offrire una qualche collaborazione alle altre attività pastorali.

—   I preti dicano con il loro servizio quotidiano alla gente la felicità del loro essere preti nella Chiesa oggi! E siano generosi nel donare il loro tempo all’accompagnamento spirituale personale dei giovani!

—   Per educare le comunità cristiane a vivere la loro responsabilità verso le vocazioni, la nostra Diocesi vorrà rinnovare le strutture pastorali necessarie, come ad esempio il Centro Diocesano Vocazioni e le iniziative per una sensibilizzazione dei Vicariati e delle aggregazioni ecclesiali laicali.

 

  1. La seconda certezza riguarda la presenza attiva dei fedeli laici nella vita e missione della Chiesa. Sia pure con notevoli eccezioni, pare di dover registrare, anche nella nostra Diocesi – nelle sue strutture e iniziative – una insufficiente valorizzazione dei doni e dei compiti dei fedeli laici. Ma ciò contrasta o comunque ritarda le esigenze attualmente sempre più pressanti di una pastorale missionaria di nuova evangelizzazione. Soprattutto ciò rallenta o impedisce il dispiegarsi dell’azione dello Spirito che anima la Chiesa e la edifica con i doni e i talenti di tutti i battezzati. In ascolto dello Spirito, allora, preti e laici sono chiamati a una conversione pastorale che esige comunione e collaborazione, e prima ancora rispetto dei compiti propri e specifici: nella vita della Chiesa, forse ai preti è chiesto di fare un passo indietro e ai laici di fare un passo in avanti, meglio è chiesto che ciascuno occupi generosamente il proprio posto! In questo senso durante la Visita Pastorale ho ripetutamente detto che “il Signore non pone la parrocchia tutta e solo sulle spalle e nel cuore del parroco. Il suo disegno è più grande e bello, più entusiasmante: è di porre la parrocchia sulle spalle e nel cuore di tutti i parrocchiani insieme e di ciascuno di loro”.

D’altra parte, non è possibile un’autentica e feconda valorizzazione dei doni e dei compiti dei laici senza una loro adeguata formazione umana e cristiana. C’è qui un altro capitolo impegnativo e insieme promettente della nostro impegno pastorale.

In particolare i laici, la cui caratteristica propria e peculiare è “l’indole secolare” ossia il loro essere nelle realtà di questo mondo, sono chiamati dal Signore – come scrive il Concilio – a “cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio” (Lumen gentium, 31). I laici, dunque, sono membri della Chiesa e insieme cittadini del mondo. E sono cittadini precisamente come cristiani. Per questo sono chiamati a vivere la loro fede non solo nell’intimo della propria coscienza e nel momento della preghiera, ma anche dentro i problemi concreti dell’esistenza quotidiana, e dunque nel mondo del lavoro, dell’economia, della salute, del volontariato, della cultura, del tempo libero, della partecipazione alla vita del territorio, della politica, ecc. L’annotazione storica del Concilio, anche a distanza di più di trent’anni, conserva sempre vivo e stimolante il sapore di un formidabile appello: “Il distacco, che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo” (Gaudium et spes, 43). Ora perché i laici cristiani che, attraverso movimenti e forze varie, sono impegnati nel sociale e nel politico possano salvare e promuovere l’unità fede-vita, è necessario che vivano il legame con le loro comunità ecclesiali, anche con una partecipazione alla pastorale ordinaria.

 

  1. Ed ora all’interno della presenza attiva dei laici nella Chiesa e nella società vogliamo ricordare in modo più specifico, sia pure con un semplice accenno, il posto e il compito delle coppie e delle  famiglie cristiane Ci troviamo oggi in un contesto sociale e culturale di forte disgregazione o addirittura di snaturamento dell’identità stessa della famiglia, e nel medesimo tempo in una situazione ecclesiale di grande debolezza della famiglia cristiana nel vivere controcorrente i valori evangelici, quali sono l’apertura alla vita e il suo rispetto assoluto, l’amore casto e fedele, l’educazione alla fede e la vita di preghiera, il senso della sobrietà e della carità verso i poveri, la sfida alla santità.

Proprio per questo la nostra Chiesa dovrà certamente ritornare su questo punto nevralgico della sua vita e missione con alcuni impegni pastorali specifici: sia per far riscoprire la singolare bellezza del disegno di Dio sul matrimonio cristiano e sui suoi compiti nella Chiesa e nella società, sia per far riprendere con convinzione e decisione alle famiglie cristiane il loro fondamentale e insostituibile ruolo di luogo primario di trasmissione della fede cristiana. Ma come trasmettere un valore che si è perso o che è fortemente in crisi?

 

Gli ambienti di vita

  1. Siamo ora agli ambienti di vita da raggiungere con la pastorale missionaria della nuova evangelizzazione. È certo che non ci si può restringere alla comunità cristiana, alle sue strutture e alle sue iniziative, ma che ci si deve aprire agli ambienti di vita, ossia ai più diversi luoghi, esperienze, ambiti, attività e iniziative del territorio (città, paese, quartiere, circoscrizione, ecc.) e della vita della società civile. La nostra pastorale deve fare un passo in avanti: se è vero che già esiste l’interesse e il coinvolgimento per questi “mondi vitali” da parte dei sacerdoti e dei laici, è pure vero che non di rado l’impegno pastorale rischia di accentrarsi e persino di esaurirsi all’interno delle nostre comunità ecclesiali.

C’è dunque una specie di “parrocchialismo” che dev’essere superato per realizzare un’apertura più programmata agli uomini e ai loro gruppi, da raggiungere là dove vivono, lavorano, soffrono, sperano, si divertono, muoiono. Per la verità, l’attenzione al territorio e agli ambienti di vita rientra come elemento essenziale di una parrocchia, essendo questa “in un certo senso la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie” (Christifideles laici, 26): la parrocchia, infatti, ritrova se stessa “fuori di sé”, come ha detto Giovanni Paolo II; ed insieme dall’incontro con gli ambienti di vita viene essa stessa  arricchita e comunque stimolata a rinnovarsi.

Questa è la certezza che ci viene dalla nostra fede: ogni spazio umano, al di là delle apparenze contrarie e anche dalle reali difficoltà di inserimento, è in attesa di ricevere l’annuncio del Vangelo che salva. In ogni spazio umano, infatti, è sempre operante quello Spirito che “rinnova la faccia della

terra” e che precede, ispira e sostiene il farsi presente della Chiesa e dei cristiani nella storia.

 

La metodologia pastorale

  1. Concludiamo con qualche veloce accenno alla metodologia da seguire nel compimento della missione evangelizzatrice della Chiesa.

—  Alla radice deve stare la convinzione che il vero grande protagonista è lo Spirito Santo Creatore, di cui noi siamo semplici ma fortunati strumenti. Di qui una fiducia senza limiti, in ogni situazione; e insieme una permanente e crescente disponibilità a obbedire allo Spirito e quindi ad assumerci le nostre responsabilità. Non ci è lecito riposare tranquilli sulle nostre certezze e sulle nostre tradizioni, perché lo Spirito “soffia dove vuole” (Giovanni 3, 8) ed esige continuo ascolto e pronto rinnovamento.

—  Dobbiamo avere la saggezza e la forza morale di procedere con una programmazione: elaborare, in riferimento al cammino pastorale della Diocesi, un piano di azione missionaria – ossia un’analisi della situazione entro la quale si opera e l’individuazione di alcune linee progettuali – e verificare a scadenze determinate il cammino compiuto. È in questa prospettiva che sollecito ancora una volta la costituzione del Consiglio Pastorale sia parrocchiale che vicariale e l’impegno per la sua vitalità.

—   Non basta l’impegno a favorire che gli altri vengano a noi, cioè alla comunità ecclesiale, ai suoi spazi,  alle sue attività e iniziative, e rimanere in paziente attesa. Noi per primi ci dobbiamo muovere e andare là dove gli altri vivono e hanno i loro interessi, difficoltà e speranze. Non è stato questo il metodo di Gesù, di cui i Vangeli rilevano il continuo e instancabile andare? La strada è il luogo quotidiano della sua missione. Perché non deve esserlo anche della nostra missione? Nel 1965 Paolo VI diceva: “Alla mobilità del mondo moderno deve corrispondere la mobilità della Chiesa”. Nasce da qui la necessità di educarci e di educare al dialogo con tutti, nel segno di quei caratteri di chiarezza, mitezza, fiducia e prudenza pedagogica presentati da Paolo VI nella sua prima enciclica Ecclesiam suam.

 

  1. Come si vede, quest’ultima serie di “orientamenti e indicazioni” riprende quanto è stato detto nelle precedenti linee per la vita della nostra Chiesa dopo la Visita Pastorale e sottolinea l’urgenza di una loro realizzazione più dinamica, aperta veramente a tutti e nel segno di un annuncio tale del Vangelo da farlo percepire e accogliere come la risposta piena, anzi eccedente, alla sete che ogni uomo ha per tutto ciò che è vero, buono, bello, nobile, grande e appagante. Da questa missionarietà di nuova evangelizzazione dipende il futuro della nostra Chiesa.

 

 

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Parte Terza

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IL CAMMINO GIUBILARE E IL CALENDARIO DELL’ ANNO SANTO 2000

 

  1. La meditazione sul mistero della Santissima Trinità e gli “orientamenti e indicazioni” della Visita Pastorale rivestono un particolare tono se li manteniamo nel contesto di grazia e di responsabilità proprio del Giubileo. Questo, come più volte abbiamo detto, può essere qualificato come un cammino: non solo perché tra i suoi “segni” annovera il pellegrinaggio, ma anche perché il cammino richiama la “via” e la “porta”, che per noi credenti è Gesù Cristo stesso in persona: il Signore è venuto nel nostro mondo con l’Incarnazione e continuamente viene nella sua Chiesa con la Parola e con i Sacramenti, e noi siamo chiamati ad andare a lui, a incontrarlo e a seguirlo. Egli è viandante con noi, come già con i discepoli di Emmaus. Ma non è solo viandante: è soprattutto la via e la porta e così ci conduce con la forza soave e potente del suo  Spirito alla casa e nel grembo del Padre della vita e della gioia.

In questo modo abbiamo già fatto intravedere qual è la meta del nostro cammino, del cammino della nostra esistenza di uomini e di credenti. Riascoltiamo la voce del Papa: “Tutta la vita cristiana è come un grande pellegrinaggio verso la casa del Padre, di cui si riscopre ogni giorno l’amore incondizionato per ogni creatura umana, ed in particolare per il ’figlio perduto’ (cfr. Luca 15, 11-32). Tale pellegrinaggio coinvolge l’intimo della persona allargandosi poi alla comunità credente per raggiungere l’intera umanità” (Tertio millennio adveniente, 49).

Vogliamo ora conoscere meglio alcuni valori ed esigenze del nostro cammino. Per questo dobbiamo soffermarci sulla meta da raggiungere, sul tempo messo a nostra disposizione, sui luoghi da visitare, sui protagonisti del cammino stesso ossia i pellegrini, e infine sul bastone e sulla bisaccia che dobbiamo portare con noi. In connessione con questi aspetti potremo cogliere più facilmente lo “spirito” secondo cui è stato programmato, anche nella nostra Chiesa di Genova, il calendario del Giubileo.

            Ci siano di incoraggiamento le parole di sant’Efrem il Siro: “Se vuoi fare un viaggio verso un’altra terra, una terra lontana, verso la tua patria, non puoi lasciarti dietro tutta l’estensione della strada in un istante, ma fai un certo numero di passi, e giungi così, a poco a poco e con fatica, alla terra che brami. Così avviene anche per il regno dei cieli. Vi si giunge attraverso il digiuno, l’astinenza, la veglia, la preghiera, le lacrime e l’amore, che sono le tappe che conducono al cielo. Non temere l’inizio della strada che conduce alla vita eterna: abbi soltanto la più seria volontà di cominciare il viaggio, e stai pronto. Presto la strada si spianerà davanti ai tuoi piedi, passerai con gioia e contentezza da una tappa all’altra, e a ciascuna i passi della tua anima si faranno più saldi. Non troverai più difficoltà sulla strada che conduce al cielo, perché il Signore del cielo si farà Egli stesso, spontaneamente, strada della vita per quelli che con gioia vogliono giungere al Padre della luce” (Meditazione sulla morte, 6).

 

La meta del cammino

 

  1. È importante rilevare, anzi tutto, che la meta non è un particolare secondario del cammino, ma è ciò che dà valore, ed insieme interesse e slancio, al cammino stesso. Nel caso del cammino giubilare la meta verso cui muoverci coincide con il “senso” stesso del Giubileo. Di qui la necessità di addentrarci sempre più nell’assimilazione intelligente e amorosa della bellezza e del dono propri del Giubileo.

Qual è, dunque, il senso del Giubileo? Potremmo rispondere con la stessa parola che Gesù ha pronunciato nella sinagoga di Nazaret: è quello di essere un anno di grazia del Signore (cfr. Luca 4, 19).  E la “grazia” è un dono totalmente gratuito del Padre, frutto del suo sviscerato amore di compassione e di pietà, pura bontà che genera riconciliazione, vita, gioia e pace. E qual è la parte dell’uomo di fronte a questa grazia? È di accogliere la misericordia del Signore con la conversione. Ora è interessante notare come nel linguaggio biblico-cristiano la “conversione” è una precisa forma di cammino: significa cambiamento di strada, inversione di rotta, e pertanto decisione e impegno per un cammino “nuovo” nella vita.

 

  1. In realtà il Grande Giubileo del 2000 chiede, anzi tutto, una conversione religiosa o teologale, che consiste in una rinnovata confessione di fede in Gesù Cristo, il Figlio del Dio vivente fattosi uomo per noi, “festeggiato” nel suo duemillesimo “compleanno”; in un riconoscimento convinto di Lui come unico Salvatore del mondo, ieri, oggi e sempre (cfr. Ebrei 13, 8); in un canto gioioso di lode e di gratitudine per la sua ininterrotta presenza di grazia nella storia dell’umanità. L’obiettivo della fase celebrativa del Giubileo – lo ripetiamo ancora una volta con le parole del Papa – sarà “la glorificazione della Trinità, dalla quale tutto viene e alla quale tutto si dirige, nel mondo e nella storia” (Tertio millennio adveniente, 55).

Il Giubileo chiede poi una conversione morale e spirituale, che consiste nell’impegno costante di sradicarci dal male e di amare e di aderire al bene: è quanto avviene facendoci sempre più “discepoli” di Gesù, ossia seguendolo e camminando nella docilità allo Spirito che egli ci dona.

L’Anno Santo chiede anche una conversione pastorale, che consiste in una più generosa ed entusiastica partecipazione alla vita della Chiesa e alla sua missione evangelizzatrice, assumendo così e vivendo in prima persona lo slancio missionario proprio della Chiesa.

Principio e forza per questo nuovo cammino – religioso, morale e spirituale, pastorale – della Chiesa e dei singoli cristiani è “la bontà misericordiosa del nostro Dio” (Luca 1, 78), l’amore tenerissimo del Padre “ricco di misericordia e compassione” (Giacomo 5, 11) che in Gesù ci accoglie, ci perdona, ci riconcilia, ci ridona la vita, ci invita alla festa e ci rende partecipi della sua stessa gioia (cfr. Luca 15, 11-32).

Come si vede, il cammino del Giubileo, proprio perché si snoda e si compie attraverso questa conversione di vita, è quanto mai bello e impegnativo. Se è così, occorre essere vigilanti: si potrebbero fare anche tanti  e ripetuti “pellegrinaggi” alle più diverse basiliche e chiese e rimanere del tutto spiritualmente fermi, bloccati! Ben diverso, molto più coinvolgente il cuore e la vita, è invece l’autentico cammino del Giubileo!

 

Il tempo del cammino

  1. Quanto tempo dura il cammino giubilare? Già abbiamo riascoltato la voce di Gesù, che parla di un anno di grazia del Signore. Dura, dunque, un anno intero: dal Natale del 1999 all’Epifania del 2001.

Viene comunque spontaneo chiederci : perché dura tutto un anno? Certo, la ragione sta nella stessa tradizione storica dei Giubilei. Ma questa, a sua volta, racchiude un’intenzione profonda: non solo quella di dare la più ampia possibilità a tutti di celebrare il Giubileo, ma anche quella di aiutare a vivere più intensamente la straordinaria ricchezza della grazia giubilare servendosi di un arco esteso di tempo. È come un calare in profondità il proprio cammino spirituale, un imprimere il significato giubilare su tutto l’anno. Del resto è l’uomo stesso che sente di aver bisogno di tempo se vuole veramente maturare certi sentimenti e atteggiamenti che sono nel suo cuore. Nulla è più contrario al vero senso del Giubileo che pensare di poterne “lucrare” in fretta e furia l’indulgenza, con una piccola visita a una chiesa, fosse pure la Basilica di San Pietro in Roma, con una ancor più piccola preghiera e con l’eventuale aggiunta di un’elemosina ai poveri!

Siamo allora invitati a seguire la strada maestra che la Chiesa traccia davanti a noi e per noi con il suo Anno Liturgico. È questo il “programma” fondamentale del nostro cammino spirituale, nel quale la Chiesa ci prende per mano e ci conduce a contemplare, celebrare e rivivere i “misteri” della vita, della passione e morte, della risurrezione e glorificazione di Gesù Cristo.

 

  1. Nel segno della concretezza il Giubileo chiede a tutti noi di impegnarci seriamente a restituire pienezza di valore e di stima:

1) all’anno liturgico come tale, in particolare con una catechesi e una vita spirituale  appropriate soprattutto per i “tempi forti” dell’Avvento, della Quaresima, della Pasqua-Pentecoste;  2) ai Sacramenti, in particolare al sacramento della Penitenza e a quello dell’Eucaristia: sia in modo abituale, sia in modo specifico per ricevere l’indulgenza propria del Giubileo. Infatti “tutto il cammino giubilare, preparato dal pellegrinaggio, ha come punto di partenza e di arrivo la celebrazione del sacramento della Penitenza e di quello dell’Eucaristia, mistero pasquale di Cristo nostra pace e nostra riconciliazione: è questo l’incontro trasformante che apre al dono dell’indulgenza per sé e per altri”;

3) alla domenica o giorno del Signore, che è la Pasqua settimanale e il “compendio” della storia della salvezza.

In questo contesto liturgico-sacramentale la nostra Chiesa di Genova chiede alle singole comunità parrocchiali di vivere, con specifiche iniziative di catechesi e di culto alla Santissima Eucaristia, la Settimana liturgica-eucaristica. Questa verrà celebrata tra le domeniche 18 e 25 giugno 2000, in concomitanza al Congresso eucaristico internazionale, voluto dal Papa per sottolineare la presenza viva e salvifica di Cristo – l’unica via di accesso al Padre – nella Chiesa e nel mondo: “Il Duemila sarà un anno intensamente eucaristico: nel sacramento dell’Eucaristia il Salvatore, incarnatosi nel grembo di Maria venti secoli fa, continua ad offrirsi all’umanità come sorgente di vita divina” (Tertio millennio adveniente, 55).

Con il Calendario giubilare della Chiesa universale, che vede inserita nel corso dell’anno una celebrazione solenne dei sette Sacramenti, il Papa intende offrire a tutti un luminoso esempio. È per noi un forte invito a crescere in un amore più intenso e in una cura più sollecita nel vivere l’anno liturgico, la celebrazione sacramentale, il giorno del Signore. In questo senso siamo chiamati a prendere più viva coscienza che il primo e grande pellegrinaggio del Giubileo è quello liturgico!

 

I luoghi del cammino

  1. Il cammino si snoda per tappe, ha bisogno di soste, giunge a luoghi nei quali ci si ferma come a un traguardo raggiunto e a un punto di ripresa per proseguire il cammino.

Essendo quello del Giubileo un cammino di conversione, il suo “luogo” per antonomasia è il cuore, l’io profondo, la “cella” del proprio spirito. Il richiamo di Gesù alla donna di Samaria è sempre di attualità: “Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre… Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori” (Giovanni 4, 21.23). E l’esperienza non inganna: si possono visitare anche le chiese più belle e famose del mondo, ma con un cuore assente o vuoto! Non dimentichiamolo, dunque: il Giubileo interpella anzi tutto il nostro cuore. Se è invito alla conversione, è invito a “rientrare in se stesso”, come è stato del figlio prodigo (cfr. Luca 15, 17).

Ma l’uomo non è tutto e solo il suo cuore. È un’unità psico-fìsica e relazionale :  con il suo “corpo” l’”io” dell’uomo si apre ed entra in comunione con il “tu” degli altri. E così ha bisogno per esprimersi e per vivere anche di un ambiente concreto, di un “luogo”. Ciò vale anche per la sua vita religiosa: ha bisogno di “luoghi sacri” nei quali incontrarsi con Dio. E anche il Giubileo ha i suoi “luoghi sacri”, che si trovano a Roma, in Terra Santa, nelle Chiese particolari.

Lasciamo la parola al Papa, che riferendosi al Grande Giubileo dell’Anno 2000 così scrive: “Sarà un evento che verrà celebrato contemporaneamente a Roma e in tutte le Chiese particolari sparse nel mondo, ed avrà, per così dire, due centri: da una parte la Città, ove la Provvidenza ha voluto porre la sede del Successore di Pietro, e dall’altra la Terra Santa, nella quale il Figlio di Dio è nato come uomo prendendo la nostra carne da una Vergine di nome Maria (cfr. Luca 1, 27)” (Incarnationis mysterium, 2).

Su questa serie di luoghi sacri ci soffermiamo brevemente, in ordine a presentare le possibilità e gli impegni della nostra Chiesa di Genova.

 

Roma, la città del Successore di Pietro

  1. L’acquisto dell’indulgenza giubilare può avvenire, anzi tutto, a Roma, più precisamente con un pio pellegrinaggio a una delle Basiliche patriarcali ( san Pietro, san Giovanni in Laterano, santa Maria Maggiore, san Paolo fuori le mura), ma anche in altri luoghi (Santa Croce in Gerusalemme, san Lorenzo al Verano, santuario della Madonna del Divino Amore, Catacombe cristiane).

Per noi non è difficile giungere in pellegrinaggio a Roma, personalmente o in gruppo o in occasione del Giubileo per alcune categorie di persone. Per quest’ultimo caso la nostra Chiesa di Genova si impegna a favorire la partecipazione soprattutto per il Giubileo dei giovani (15-20 agosto) e delle famiglie (14-15 ottobre). In particolare sono programmati due Pellegrinaggi specificamente diocesani  a Roma, il primo dal 7 al 9 aprile e il secondo dal 1° al 3 settembre per la beatificazione dell’Arcivescovo di Genova  Monsignor Tommaso Reggio (1818-1901).

 

La Terra Santa

  1. Il Giubileo può essere celebrato, in modo particolarmente significativo, “nella Terra a buon diritto chiamata ‘santa’ per aver visto nascere e morire Gesù. Quella Terra, in cui è sbocciata la prima comunità cristiana, è il luogo nel quale sono avvenute le rivelazioni di Dio all’umanità. È la Terra promessa che ha segnato la storia del popolo ebraico ed è venerata anche dai seguaci dell’Islam. Possa il Giubileo favorire un ulteriore passo nel dialogo reciproco fino a quando un giorno, tutti insieme – ebrei, cristiani e musulmani – ci scambieremo a Gerusalemme il saluto della pace” (Incarnationis mysterium, 2).

Anche la nostra Chiesa genovese, secondo queste intenzioni del Santo Padre, avrà la gioia spirituale di visitare la terra di Gesù con il pellegrinaggio diocesano del 2-9 settembre 1999: se un simile pellegrinaggio non sarà “giubilare” in senso stretto, costituirà però la più forte e stimolante preparazione alla grazia del Giubileo, quasi una sua fortunatissima anticipazione spirituale.

Di grande aiuto per tutti, durante l’Anno Santo, sarà la lettura della Lettera di Giovanni Paolo II “sul pellegrinaggio ai luoghi legati alla storia della salvezza” (29 giugno 1999).

 

La Chiesa particolare di Genova

  1. Il Giubileo dell’Anno 2000 ha, tra le sue caratteristiche proprie, anche quella di essere celebrato “in tutte le Chiese particolari sparse per il mondo”, con “un sacro pellegrinaggio alla Chiesa cattedrale o ad altre Chiese e luoghi designati dall’Ordinario”, cioè dal Vescovo. Ora in riferimento alla Chiesa di Dio che è in Genova, ho stabilito che il dono dell’indulgenza giubilare può essere ricevuto nelle seguenti chiese:

 

  1. a) nella Chiesa cattedrale di san La Cattedrale è la prima e principale chiesa per l’acquisto dell’indulgenza, è la chiesa giubilare per antonomasia, dal momento che è “la Chiesa Madre della diocesi”, simbolo dell’unità di fede e di carità di tutta la comunità diocesana, ed è per questo “la Chiesa del Vescovo”. In questo senso il Giubileo è una provvidenziale occasione per riascoltare e vivere con amore l’insegnamento del Concilio Vaticano II, che nella Costituzione sulla divina Liturgia scrive: “Il Vescovo deve essere considerato come il grande sacerdote del suo gregge, dal quale deriva e dipende in certo modo la vita dei suoi fedeli in Cristo. Perciò bisogna che tutti diano la più grande importanza alla vita liturgica della diocesi intorno al Vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale: convinti che la principale manifestazione della Chiesa si ha nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il Vescovo circondato dal suo presbiterio e dai ministri” (Sacrosanctum concilium, 41).

In questo senso, proprio nella Cattedrale avranno luogo l’apertura e la chiusura dell’Anno Santo nella nostra Chiesa di Genova, rispettivamente il 25 dicembre 1999 e il 5 gennaio 2001. Sempre nella Cattedrale la nostra Diocesi intende celebrare il Giubileo dei presbiteri (Giovedì Santo, 20 aprile), delle persone di vita consacrata (Presentazione del Signore, 2 febbraio), di altri gruppi di fedeli, come ad esempio degli immigrati (Epifania del Signore, 6 gennaio), dei malati e degli operatori sanitari (11 febbraio), del mondo del lavoro (17 marzo), delle famiglie (14 maggio), ecc. Così pure in Cattedrale si concluderà il pellegrinaggio giubilare di tutti i Vicariati della Diocesi.

 

  1. b) Nell’ambito della nostra Diocesi ho designato altre chiese giubilari, cercando di seguire il criterio del territorio, ma soprattutto il criterio della messa in luce di alcuni aspetti tipici del Giubileo stesso. Così in Genova città sono state scelte come chiese giubilari il Santuario “della Madonnetta” e la Chiesa di san Bartolomeo degli Armeni: il primo richiama la conversione (come mostra la scritta che sovrasta l’ingresso allo scurolo “convertit rupem in fontes aquarum”, dove la rupe indica il cuore di pietra e le fonti di acqua indicano le lacrime di pentimento) e la seconda, che è stata fondata dai monaci Basiliani d’Oriente e che ha l’onore di conservare il “Santo Volto”, richiama i “due polmoni della Chiesa” e l’ecumenismo. Fuori Genova sono state scelte come chiese giubilari tre santuari: il santuario del Gesù Bambino di Praga ad Arenzano, con il richiamo al mistero dell’incarnazione e della nascita del Figlio di Dio; il santuario di Nostra Signora del Suffragio in Recco, costruito a ricordo dei pellegrini che si recavano a Roma da altre nazioni d’Europa; il santuario di Nostra Signora della Guardia, con il suo essenziale rimando alla vergine Madre : “la gioia giubilare – scrive il Papa – non sarebbe completa se lo sguardo non si posasse a Colei che…ha generato per noi nella carne il Figlio di Dio… Madre della Chiesa… Donna del silenzio e dell’ascolto… Madre della misericordia… Pellegrina verso il tempio santo di Dio…” (Incarnationis mysterium, 14).

È nelle facoltà del Vescovo designare anche qualche altra chiesa o santuario (come, ad esempio, i santuari mariani dell’Acquasanta di Voltri, del Monte Gazzo di Sestri, N.S. della Guardia di Gavi, ecc.) quali luoghi giubilari, di volta in volta, in occasione di particolari celebrazioni.

 

  1. c) Ci sono altri “luoghi” che il Giubileo ci invita a visitare e nei quali, a determinate condizioni, può essere ricevuto il dono dell’indulgenza: sono i luoghi della carità, come gli ospedali, le cliniche, gli istituti, le case per anziani, ecc. Infatti, la Penitenzieria Apostolica, per mandato del Papa, ha disposto che: “i fedeli potranno acquistare l’indulgenza giubilare… in ogni luogo, se si recheranno a rendere visita per un congruo tempo ai fratelli che si trovino in necessità o difficoltà (infermi, carcerati, anziani in solitudine, handicappati, ecc.), quasi compiendo un pellegrinaggio verso Cristo presente in loro (cfr. Matteo 25, 34-36), ed ottemperando alle consuete condizioni spirituali, sacramentali e di preghiera”. In realtà, se le Cattedrali, le Basiliche, i Santuari presentano le “tracce” della presenza e dell’azione di Dio, le persone in vario modo provate e in attesa della nostra carità non sono forse la presenza viva e palpitante di Gesù stesso che ci chiede di essere sfamato, dissetato, ospitato, vestito, visitato, confortato?

Questa prospettiva, mentre ci fa immediatamente comprendere come il Giubileo debba condurre ad un nuovo cammino di vita cristiana ispirato dalla carità, costituisce un invito a valorizzare in chiave giubilare il molteplice e vario impegno di volontariato nel segno di un dono di sé per amore di Dio e dei fratelli. In questo senso ho scelto come luogo giubilare diocesano l’Istituto “Paverano”, presso il quale verrà celebrato in particolare il Giubileo dei malati (Ascensione, 4 giugno): non certo per restringere l’ampia possibilità di fruire dell’indulgenza in altri luoghi della carità, ma per offrire a tutti un richiamo permanente e particolarmente significativo per la nostra Città, ancora oggi benedetta e stimolata dalla carità del beato don Orione.

 

I pellegrini, protagonisti del cammino

  1. Il Giubileo chiama tutti: singoli e comunità. Tutti noi, dunque, siamo invitati ad essere protagonisti coscienti e liberi del cammino giubilare.

Ciascuno di noi, nella sua unicità e irripetibilità di persona e di situazione di vita, deve sentirsi interpellato e “invitato alla festa”; nessuno, quindi, deve sentirsi escluso. Come scrive il Papa: “Ogni anno giubilare è come un invito ad una festa nuziale. Accorriamo tutti…” (Incarnationis mysterium, 4). E ancora: “Una cosa è certa: ciascuno è invitato a fare quanto è in suo potere, perché non venga trascurata la grande sfida dell’Anno 2000, a cui è sicuramente connessa una particolare grazia del Signore per la Chiesa e per l’intera umanità” (Tertio millennio adveniente, 55).

—  Protagonista può e deve diventare la famiglia: sia le famiglie singole, sia le famiglie tra loro collegate o variamente associate. Lasciamo di nuovo la parola al Santo Padre: “È necessario che la preparazione al Grande Giubileo passi, in un certo senso, attraverso ogni famiglia. Non è stato forse attraverso una famiglia, quella di Nazaret, che il Figlio di Dio ha voluto entrare nella storia dell’uomo?” (Tertio millennio adveniente, 28). La famiglia cristiana, come “chiesa domestica”, prende parte proprio come famiglia – e dunque “insieme” marito-moglie, genitori-figli, fratelli-sorelle, e “con le realtà tipiche” dell’esistenza coniugale e familiare – al grande pellegrinaggio del Popolo di Dio verso la casa del Padre, adempiendo così alla sua missione “profetica”: “La famiglia cristiana – scrive il Concilio – proclama ad alta voce le virtù presenti del Regno di Dio e la speranza della vita beata” (Lumen gentium, 35). Come è importante e liberante per la famiglia, così spesso appesantita da difficoltà e prove di questa vita, aprirsi nella fede e spaziare nell’orizzonte dell’altra vita che non conosce tramonto!

—  Pellegrini sono anche le comunità ecclesiali, come le diverse categorie di persone del popolo di Dio, i gruppi-movimenti-associazioni, le parrocchie, i vicariati, la Chiesa particolare come tale. Queste varie forme “comunitarie” di celebrare e vivere il Giubileo, che in un modo più o meno forte costituiscono un’epifania, una manifestazione visibile del mistero stesso della Chiesa pellegrina nel tempo verso l’eternità, sono ovviamente lasciate alla piena libertà di iniziativa di ciascuna comunità. In particolare i sacerdoti avvertano la responsabilità di sviluppare una sensibilizzazione e un coinvolgimento delle proprie comunità perché il Giubileo segni veramente una grande grazia per il rinvigorimento della fede e della vita spirituale e per il rinnovamento dello slancio pastorale e missionario.

—  La nostra Diocesi, da parte sua, intende promuovere il Giubileo per alcune categorie di persone, come appare dal Calendario, e valorizzare in una maniera del tutto particolare il pellegrinaggio giubilare di tutti i Vicariati con una specifica solenne celebrazione in Cattedrale: qui, nel pomeriggio del sabato, con la concelebrazione eucaristica presieduta dal Vescovo con tutti i sacerdoti del Vicariato e con la presenza dei fedeli delle varie parrocchie giunge a compimento quel pellegrinaggio giubilare che si è precedentemente snodato nelle tre tappe vicariali della Parola di Dio ascoltata e pregata, della celebrazione penitenziale e della carità, della adorazione eucaristica o/e della preghiera per l’unità dei cristiani o/e di forme di devozione mariana. Per il pellegrinaggio vicariale alla Cattedrale, in ordine ad assicurare la necessaria partecipazione dei sacerdoti e dei fedeli e a manifestare più compiutamente la comunione ecclesiale col Vescovo, nel sabato fissato non verranno celebrate nelle chiese del Vicariato le sante Messe vespertine.

Sempre nella prospettiva ecclesiale sono da ricordarsi i pellegrinaggi dei primi sabati del mese al Santuario di N.S. della Guardia: la presenza del Vescovo e la partecipazione così numerosa e varia di fedeli dice in modo assai eloquente che si tratta di un cammino spirituale del “popolo di Dio che è in Genova” nella casa di Maria, la Madre che ci fa incontrare con il Figlio e ci introduce nel cuore della Trinità.

—  Secondo il vivissimo desiderio del Papa, che sappiamo essere espressione della volontà del Signore, il Giubileo deve segnare una tappa importante per il cammino ecumenico. Ma quali “incontri”, quali “iniziative” e quali “gesti” saranno possibili tra i cristiani di diverse confessioni e tra i rappresentanti delle grandi religioni? È certo comunque che il Giubileo chiede a tutti i cristiani di intensificare sempre più la preghiera ecumenica, in sintonia con la grande invocazione di Cristo, prima della Passione: “Padre… siano anch’essi in noi una cosa sola” (Giovanni 17, 21).

In questa linea, speciale cura pastorale dovrà essere riservata alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio), così come utile richiamo alla preghiera ecumenica sarà per l’intero anno la chiesa giubilare di San Bartolomeo degli Armeni. Ricordo infine, ormai vicinissimi all’aprirsi del Giubileo, l’importante e significativo incontro tra Cattolici e Ortodossi “Chiese sorelle, Popoli fratelli”  che si terrà a Genova nei giorni 12-14 novembre 1999: esso viene organizzato e curato dalla Comunità di Sant’Egidio di Roma in stretta e attiva collaborazione con la nostra Diocesi, chiamata ad accogliere e a vivere una particolare “grazia ecumenica”.

 

Il bastone e la bisaccia del cammino

  1. Anche il cammino del Giubileo ha bisogno del bastone e della bisaccia: del bastone per appoggiarsi e della bisaccia per essere riforniti e sostenuti nel cammino. Ma che cos’è il bastone e che cosa contiene la bisaccia?

Il bastone è il simbolo della forza dello Spirito Santo: è lui, lo Spirito di verità, che fa luce sul senso del Giubileo che vogliamo celebrare; è lui, lo Spirito consolatore, che dà slancio, calore, coraggio, entusiasmo per i passi del nostro cammino giubilare; è lui, il vento impetuoso e il fuoco bruciante, che scuote e rianima i passi stanchi e affaticati. È lo Spirito Santo la  sorgente e l’energia del nostro cammino, se questo nella sua verità originale si qualifica come “conversione” a Gesù Cristo e in lui “ritorno alla casa” del Padre per dimorare per sempre nel cuore della Trinità.

La bisaccia portata sulle spalle è una specie di sacco che racchiude realtà, segni, sentimenti e gesti di cui deve essere profondamente segnato il  Giubileo e che sono necessari per compiere nella verità il nostro cammino giubilare. Vogliamo rovesciarla questa bisaccia e vedere che cosa contiene? Un aiuto al riguardo ci può venire dal Racconto di un pellegrino russo, un’opera anonima di forte intensità spirituale. Ascoltiamo la sua voce: ”Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per le mie azioni grande peccatore, per condizione un pellegrino senza tetto della più umile specie, che va errando di luogo in luogo. I miei averi sono un sacco sulle spalle con un po’ di pane secco e una Sacra Bibbia che porto sotto la camicia. Altro non ho”.

           

  1. Anche nella nostra bisaccia deve trovare posto una Sacra Bibbia, ossia i libri santi della Parola di Dio: una parola da ascoltare, da meditare, da pregare, da vivere. È la parola del “Vangelo”, della “lieta notizia” che Dio è amore misericordioso, bontà che salva e libera e dà vita in Cristo Gesù per mezzo dello Spirito. Senza questa parola non ci sarebbe “rivelato” ma rimarrebbe del tutto inconoscibile il centro stesso del Giubileo, cioè il suo essere grazia che dona la gioia del perdono, della riconciliazione e della novità di vita.

Nella bisaccia del pellegrino russo c’è “un po’ di pane secco”: non è possibile ravvisarvi il pane – non certo “secco” per noi! – di cui cibarci per la nostra vita spirituale, e dunque il Pane della Vita, Gesù Cristo stesso nel dono eucaristico del suo Corpo e del suo Sangue? E più ampiamente anche gli altri sacramenti, in particolare il sacramento della Penitenza e della Riconciliazione? Il cammino giubilare si snoda sulla strada dei Sacramenti, ossia dell’incontro personale con Gesù Cristo “sacramento primordiale” (segno e strumento) dell’amore del Padre ricco di misericordia.

Circa il contenuto della bisaccia si fa eloquente anche quest’altra confessione del pellegrino russo: “Per grazia di Dio sono uomo e cristiano”. Essa fa comprendere che nella bisaccia deve trovare posto la preghiera, come espressione dei propri sentimenti al Signore. E sono sentimenti di adorazione e di rendimento di grazie, di invocazione e di lode, in un clima che sa unire silenzio e parola, raccoglimento e comunione, contemplazione e gioia e canto. Essenzialmente spirituale, infatti, è il cammino del Giubileo, non solo per il “luogo sacro” al quale ci si dirige ma ancor più per i sentimenti interiori di amore per Dio che animano i nostri passi, come quelli dell’antico pellegrino d’Israele: “Quale gioia, quando mi dissero: ‘Andremo alla casa del Signore’. E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme” (Salmo 122, 1-2).

Significativa anche quest’altra confessione “per le mie azioni grande peccatore”! Ci dice in modo immediato e concreto che quello del Giubileo è soprattutto un cammino di conversione, i cui passi sono il rientrare in se stessi, il pentimento delle proprie colpe, il distacco dall’egoismo e dal male, la disponibilità al sacrificio e a qualche forma concreta di penitenza, la fortezza di fronte alle prove della vita e alla sofferenza, ecc.: tutto al servizio della purificazione del cuore e della memoria. Come scrive il Papa: “Il pellegrinaggio evoca il cammino personale del credente sulle orme del Redentore: è esercizio di ascesi operosa, di pentimento per le umane debolezze, di costante vigilanza sulla propria fragilità, di preparazione interiore alla riforma del cuore. Mediante la veglia, il digiuno, la preghiera, il pellegrino avanza sulla strada della perfezione cristiana sforzandosi di giungere, col sostegno della grazia di Dio, ‘allo stato di uomo perfetto nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo’ (Efesini 4, 13)” (Incarnationis mysterium, 7). Come è vero che il Giubileo non è affatto un’indulgenza a buon mercato!

Merita d’essere sottolineata anche quest’altra parola del pellegrino russo, che si presenta “senza tetto… che va errando di luogo in luogo”, con un’evidente allusione alla povertà e alla provvisorietà. Non è forse un richiamo prezioso anzitutto per la nostra vita cristiana, nella quale deve trovare posto la rinuncia al superfluo e…a qualcosa d’altro ancora, e poi per i nostri pellegrinaggi giubilari perché siano caratterizzati da semplicità, essenzialità ed austerità?

Non si deve dimenticare di porre in bisaccia soprattutto la carità nel suo concreto esercizio. Spesso il cammino giubilare avviene con gli altri e comunque ci pone a contatto con gli altri, divenendo così tra gli stessi pellegrini occasione di carità che accoglie e che si fa servizio. Ma c’è anche una carità che ci viene richiesta a favore dei pellegrini: è la tradizionale “ospitalità”, che proprio con il Giubileo assume particolare importanza e presenta modi nuovi di espressione, come “il volontariato per l’accoglienza giubilare”. Soprattutto la carità deve essere vissuta come una dimensione essenziale e primaria della conversione richiesta dal Giubileo, come ripetutamente richiama il Santo Padre, che collega “la conversione e il rinnovamento personale” alla “solidale accoglienza del prossimo, specialmente quello bisognoso” e alla “opzione preferenziale della Chiesa per i poveri e gli emarginati” (Tertio millennio adveniente, 42. 51).  Il Papa è ancora più esplicito perché fa della carità uno dei “segni” tipici del Giubileo: “Un segno della misericordia di Dio, oggi particolarmente necessario, è quello della carità, che apre i nostri occhi ai bisogni di quanti vivono nella povertà e nell’emarginazione…” (Incarnationis mysterium, 12).

 

Nella Bolla di indizione del Giubileo il Papa ha scritto: “La storia della Chiesa è il diario vivente di un pellegrinaggio mai terminato. In cammino verso la città dei santi Pietro e Paolo, verso la Terra santa, o verso gli antichi e nuovi santuari dedicati alla Vergine Maria ed ai Santi: ecco la meta di tanti fedeli che alimentano così la loro pietà” (Incarnationis mysterium, 7). In questo “diario” vivente della storia della Chiesa anche noi scriviamo la nostra pagina: l’Anno Santo ci chiede di scriverla nel segno di una fede più viva e di una carità più generosa.

In una simile prospettiva prende significato l’ultima parte di questa Lettera pastorale.

 

 

 

Parte quarta

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MISSIONARI DEL VANGELO E SERVI DELLA CARITA’

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  1. Riprendiamo la prospettiva del Giubileo – quella del “rinvigorimento della fede e della testimonianza dei cristiani” (Tertio millennio adveniente, 42) e in particolare del rinnovato slancio missionario – guardando a Paolo e alla sua bruciante passione apostolica. Così si autopresenta ai Romani: “Paolo, servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio…” (Romani 1, 1). E ai Corinti: “Non è per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!” (1 Corinti 9, 16). L’apostolo si rivolge a tutti: Giudei e pagani (cfr. 1 Corinti 9, 20ss.). Senza paura di affrontare prove e sofferenze di ogni genere (cfr. 1 Tessalonicesi 2, 2), Paolo ha generato mediante l’annuncio del Vangelo le comunità cristiane alla fede e le ha educate portandole alla maturità della fede.

E con il Vangelo Paolo ha donato se stesso per amore: “Siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma anche la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari” (1 Tessalonicesi 2, 7-8). Il dono del Vangelo e il dono di se stesso nella carità fanno un tutt’uno nel cuore e nella vita dell’apostolo. Proprio secondo questa unità inscindibile si devono intendere le parole con cui Paolo, rivolgendosi al discepolo Timoteo, traccia una sintesi della sua missione e fatica apostoliche: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede” (2 Timoteo 4, 7).

Vangelo e carità, Si fa spontaneo il riferimento agli Orientamenti pastorali che i Vescovi italiani hanno proposto alle nostre Chiese per gli anni ‘90 con il documento Evangelizzazione e testimonianza della carità. Dopo la verifica e il rilancio di questi fondamentali impegni con il Convegno ecclesiale di Palermo del 1995 e con la nota pastorale che l’ha concluso e riproposto Con il dono della carità dentro la storia, stiamo ora concludendo quest’ultimo decennio del secolo con la doverosa domanda: quali tracce hanno lasciato gli Orientamenti nella vita e nella missione delle nostre comunità ecclesiali?

Anche la nostra Chiesa, insieme a tutte le altre, non può evitare questa domanda. In termini più propositivi e soprattutto nel contesto dello spirito del Giubileo vogliamo riproporre alle nostre comunità ecclesiali, con talune applicazioni specifiche, i due fondamentali impegni pastorali dell’evangelizzazione e della testimonianza della carità. Tutti, nessuno escluso, nelle forme più varie, siamo chiamati ad essere missionari del Vangelo e servi della carità.

            E proprio come missionari del Vangelo e servi della carità noi entriamo “nel cuore della Trinità” e prendiamo parte a quella singolarissima e misteriosa missione di cui è segnata dall’eternità la vita intima del Dio Trino e Uno. È bello rileggere uno dei testi più splendidi del Concilio Vaticano II, che costituisce un solidissimo fondamento teologico, nonché una sorgente inesauribile di spiritualità  missionaria e caritativa, per quanto diremo in quest’ultima parte della Lettera pastorale: “La Chiesa peregrinante per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre. Questo disegno scaturisce dall’’amore fontale’, cioè dalla carità di Dio Padre, che essendo il principio senza principio, da cui il Figlio è generato e lo Spirito Santo attraverso il Figlio procede, per la sua immensa e misericordiosa benignità liberamente creandoci ed inoltre gratuitamente chiamandoci a partecipare nella vita e nella gloria, ha effuso con liberalità e non cessa di effondere la divina bontà, sicché lui che di tutti è il creatore, possa anche essere ‘tutto in tutti’ (1 Corinzi 15, 28), procurando ad un tempo la sua gloria e la nostra felicità” (Ad gentes, 2).

Come allora non essere grati a Dio che ci chiama a condividere la missione e la carità della Santissima Trinità, e come non sentirci impegnati a dare generosa risposta alla grazia ricevuta?

 

Allora essi partirono e predicarono dappertutto

 

            Presentiamo in particolare l’iniziativa giubilare “Il Vangelo sia con te”: non solo in se stessa, ma anche come segno e stimolo al più ampio e permanente slancio missionario di nuova evangelizzazione.

 

I “Missionari del Vangelo” bussano alla porta di casa

  1. Nella Pentecoste del 1998, con la Lettera Chiesa di Genova, apri le porte a Cristo!, ho presentato ufficialmente alla Diocesi l’iniziativa “Il Vangelo sia con te ”nel suo significato, nel suo contenuto e sviluppo. A questa Lettera occorre fare riferimento se si vuole che l’iniziativa sia compresa e attuata secondo verità e in modo autentico.

In particolare ritengo importante richiamare la motivazione che ha condotto ad elaborare questa iniziativa. Si tratta di avere viva la consapevolezza che la grazia del Giubileo non è per alcuni soltanto, ma è per tutti. Certamente in questo “anno di grazia” Dio nel suo amore misericordioso sa percorrere tutti i sentieri  – anche i più sconosciuti e impensati – per arrivare al cuore di ogni uomo e di ogni donna. Ma questo stesso Dio ci vuole suoi “strumenti” nel comunicare il dono della grazia. E come ciascuno di noi si deve domandare che cosa può e deve fare per “sensibilizzare” gli altri alla grazia del Giubileo, così anche e innanzi tutto la stessa Chiesa di Genova si deve interrogare sulle iniziative da assumere per raggiungere tutti i suoi figli – specie gli indifferenti e i cosiddetti lontani – e invitarli a conoscere – e, Dio voglia, a accogliere – la grazia e la gioia spirituale dell’Anno Santo.

In concreto l’iniziativa è quella del dono personale a ogni famiglia o persona di una copia del vangelo di Marco. Perché il secondo Vangelo? Perché è quello che la Chiesa proclama durante l’anno liturgico del 2000. Perché è il vangelo che in modo breve e facile, particolarmente incisivo e mirato risponde alle due domande di fondo: Chi è Gesù? Chi è il discepolo di Gesù, cioè il cristiano? Si tratta non di una semplice diffusione e consegna di un piccolo libro, ma di un vero dono personale da parte di chi crede al valore originale del testo sacro: attraverso il vangelo si offre la Parola di Dio, la Parola vivente e personale che è Gesù Cristo, e questo mediante un dialogo fraterno col quale, insieme, si potrà trovare in queste “parole di vita eterna” una qualche luce che dia “senso” alle prove, sofferenze e attese della vita di tutti e di ciascuno.

A donare la copia del vangelo di Marco saranno i cosiddetti Missionari del Vangelo. Sono persone che si sono preparate con un cammino annuale di discepolato cristiano: si sono ritrovate nei diversi Vicariati in una comunione fraterna per conoscere in un modo più profondo e assimilare per prime il vangelo di Marco nella molteplice e straordinaria ricchezza del suo contenuto, ossia come “luogo” della fede cristiana, della preghiera quale risposta a Dio che si rivela in Gesù, dello stile di vita proprio dei discepoli, dell’azione missionaria e pastorale della Chiesa nel mondo.

Sono veramente grato – e lo dobbiamo essere tutti noi – per l’impegno costante e generoso che i “Missionari del Vangelo” hanno dimostrato nel corso di un intero anno per prepararsi ad essere ascoltatori e servi della Parola. E sento di anticipare la mia gratitudine per quanto ora si apprestano a fare: a realizzare nella nostra Chiesa di Genova l’iniziativa “Il Vangelo sia con te”.

 

  1. E ora mi rivolgo personalmente a voi, carissimi Missionari del Vangelo: consapevoli e grati al Signore che per mezzo della sua Chiesa e con il mandato del Vescovo vi ha trovati degni di affidarvi il vangelo (cfr. 1 Tessalonicesi 2, 4), andate come i discepoli di Gesù a due a due, bussate alla porta di ogni famiglia o persona, entrate con grande fiducia dopo aver invocato lo Spirito Santo, fonte viva di luce e di forza per voi e per quanti incontrerete. Presentatevi non come maestri ma sempre come discepoli del Signore, ascoltando prima di parlare e offrendo agli altri nel segno dell’umiltà, della semplicità e dell’amicizia quella parola che viene dal vostro cuore di credenti. Portando in dono il vangelo e insieme portando il vangelo come il dono della “lieta notizia” di Dio che ama e salva, il vostro incontro e dialogo personale si compia sempre e solo nel segno di un amore delicato, mite e prudente nel parlare e pienamente rispettoso delle convinzioni e ancor più della libertà altrui; parlate di Gesù e del suo Vangelo, sempre discreti e quanto mai riservati per quanto riguarda le situazioni personali e familiari. E se la porta – della casa o del cuore – non si aprirà al vostro gesto, lungi dallo scoraggiarvi, offrite al Signore questa amarezza, intensificate la vostra preghiera e proseguite con fedeltà e tenacia il vostro cammino. Non sentitevi mai soli: siete Missionari del Vangelo mandati dalla Chiesa, che anche in voi e per mezzo di voi vive oggi la consegna ricevuta da Gesù di andare in tutto il mondo e di predicare il vangelo a ogni creatura (cfr. Marco l6, 15); condividete questa stessa “avventura” missionaria con altri fratelli e sorelle nel Signore che la stanno realizzando in altre parrocchie e ambienti della Diocesi; con voi sono tante persone che pregano e soffrono perché “la parola del Signore si diffonda e sia glorificata” (2 Tessalonicesi 3, 1): il mio pensiero va con particolare gratitudine ai malati e alle monache di clausura.

Al termine del vostro cammino di discepolato cristiano vi verrà dato un piccolo vademecum che vorrebbe aiutarvi a compiere il vostro servizio di Missionari del Vangelo nella maniera più consona allo spirito e alla finalità dell’iniziativa. Ciascuno di noi – con una profonda condivisione con chi sarà “compagno” nel donare la copia di vangelo – dovrà verificare di volta in volta i passi del proprio cammino, per renderli vere occasioni di grazia per le più diverse situazioni familiari e personali. Il Signore vi doni di essere voi stessi i primi beneficiari del servizio che compite al vangelo, rendendovi sempre più appassionati e docili alla Parola di Dio. Vi doni inoltre di gettare un seme che porta frutto, e di avere la gioia di poter riprendere e continuare il dialogo umano e cristiano con non poche famiglie e persone che avrete incontrato.

 

  1. Perché l’iniziativa diocesana “Il Vangelo sia con te” possa raggiungere i frutti prefissati occorrono, al di là dell’impegno fedele e generoso dei Missionari del Vangelo, alcune condizioni sia spirituali che organizzative.

La condizione spirituale di base è la preghiera. Devono risuonare sempre nel nostro cuore le parole di Gesù: “Senza di me non potete far nulla” (Giovanni 15, 5) come invito a pregare per questa iniziativa, che non è un’impresa umana ma una missione cristiana, un’offerta di grazia. Mi rivolgo a tutti, in particolare alle monache di clausura, ai malati, agli infermi, agli anziani, a quanti in qualche modo soffrono e a tutti chiedo di pregare perché lo Spirito del Signore con la sua azione soave e forte faccia percepire la vicinanza paterna di Dio e il dono del suo amore misericordioso per chiunque accoglie la sua chiamata a convertirsi e a credere al vangelo (cfr. Marco 1, 15). In quanto poi l’iniziativa è propria dell’intera comunità diocesana sarà quanto mai opportuno che rientri nelle intenzioni della preghiera dei fedeli nella celebrazione eucaristica.

Insieme alle condizioni spirituali l’iniziativa ha bisogno anche di alcune condizioni organizzative, di cui sono responsabili in particolare i Consigli Pastorali Vicariali. Come il cammino di discepolato nei gruppi di formazione per i Missionari del Vangelo è stato fatto nell’ambito dei Vicariati con la precisa intenzione di favorire la comunione e la collaborazione sul territorio, così l’attuazione dell’iniziativa “Il Vangelo sia con te” è affidata ai Consigli Pastorali Vicariali: questi infatti, avendo una conoscenza più precisa della condizione sociale, culturale e di fede del proprio territorio, possono studiare, elaborare e concordare le linee comuni di un piano organizzativo appropriato. Le singole comunità parrocchiali poi, tramite i Consigli Pastorali Parrocchiali, riprenderanno le linee comuni concordate e le applicheranno alle loro specifiche situazioni in rapporto ai Missionari del Vangelo disponibili, ai tempi, ai luoghi e ai percorsi dell’iniziativa.

 

Un rinnovato slancio missionario di nuova evangelizzazione

  1. L’iniziativa “Il Vangelo sia con te” ha un suo proprio valore, in particolare si pone al servizio della grazia del Giubileo che si vorrebbe far conoscere a tutti e accogliere da tutti. Nello stesso tempo ha un valore che trascende l’Anno Santo 2000: vuole essere un segno e un appello perché la nostra Chiesa di Genova si lasci coinvolgere dal soffio dello Spirito Creatore e rinnovare nello slancio missionario della nuova evangelizzazione.

Dobbiamo riconoscere che in non pochi cristiani la vita di fede si esprime in modo piuttosto individualistico e chiuso: sono facilmente paghi della loro personale frequenza alla chiesa e delle loro pratiche religiose e devozionali. E gli altri? gli altri che sono indifferenti e che non credono? gli altri che si sono allontanati dalla fede o che non hanno mai sentito parlare di Gesù Cristo e del Vangelo e della Chiesa? Questi “altri” non sono poi così tanto lontani da noi cristiani ed estranei alle nostre relazioni quotidiane. Lo sappiamo bene e lo constatiamo in continuità: se mai c’è stato, non siamo più nel cosiddetto “regime di cristianità”; le nostre comunità cristiane faticano ad essere fedeli ai valori e alle esigenze del Vangelo, pressate come sono dalla cultura laica e materialista; ci troviamo in mezzo a gente e culture che hanno altre religioni diverse da quella cristiana. È poi così tanto esagerato dire che siamo in un Paese di missione?

            Sento allora quanto mai urgente che cresca sempre di più in tutti noi la coscienza missionaria come parte integrante, anzi centrale della fede cristiana. Ciascuno deve sentirsi responsabile non soltanto della propria salvezza, ma anche della salvezza degli altri: nel suo disegno, infatti, Dio affida l’uomo all’uomo, e così i “lontani” dalla fede vengono affidati ai “vicini”. In tal senso la necessità della nuova evangelizzazione riguarda sì i “lontani” da avvicinare, ma ancor più riguarda i “vicini” che devono avvicinarsi ai lontani. Senza dire che, forse, abbiamo alcuni di questi “lontani” che frequentano anche i locali delle nostre parrocchie – Circoli, Società, Ricreatori, ecc. – e che finiscono per essere  come dei “separati in casa”: non potremmo – sacerdoti e laici – fare di più per avvicinarli, evangelizzarli, fare loro una proposta di fede? Avvicinare i lontani è questione di coerenza con la propria fede cristiana, la quale ha in se stessa la grazia e il dinamismo di aprirsi agli altri e di entrare in comunione con gli altri tramite la parola del Vangelo divenuta vita della propria vita.

 

  1. La coscienza missionaria della nuova evangelizzazione deve puntare – lo ricordiamo ancora una volta – in due direzioni.

All’interno delle nostre stesse comunità cristiane, anzi tutto: l’impegno è ad educarci ed educare a che questa coscienza missionaria trovi già nei rapporti con le persone, le famiglie, i gruppi, le categorie con cui abitualmente si vive spazi e occasioni di nuova evangelizzazione. Senza dire che quando una comunità parrocchiale sente e vive al suo interno il dinamismo missionario, diventa essa stessa più vivace e capace di rinnovare le più diverse attività pastorali.

L’altra direzione è quella che vede la coscienza missionaria vivere la nuova evangelizzazione come primo annuncio nei riguardi di quanti non conoscono ancora il nome del Signore. Ma perché non lo conoscono? Certo, per i motivi più diversi. Ma anche perché, non poche volte, nessuno ha parlato di Dio e di Cristo, nessuno le ha evangelizzate. Come allora accostare queste persone? Solo con la correttezza e la cordialità di rapporti umani, con la testimonianza della vita e con la disponibilità all’ascolto e al servizio della carità, o non anche con la parola esplicita del Vangelo?

È certo che come Chiesa di Genova, con la presenza di cultori di altre religioni sul nostro territorio, siamo chiamati a cercare e a vivere anche forme di dialogo interreligioso. Particolarmente interpellate al riguardo sono alcune comunità parrocchiali della Città di Genova, in specie del Centro Storico. Il cammino auspicato verso l’integrazione comporta anche il rispetto reciproco e il dialogo nell’ambito dei valori e delle esigenze religiose. Le difficoltà in questo campo non tolgono, ma acuiscono l’impegno a testimoniare e a diffondere la fede cristiana, cogliendo le occasioni che ci vengono date negli spazi di convivenza più abituali, come quelli della scuola, del lavoro, del tempo libero.

Sono grato alle non poche persone, singole e associate, che con vera passione evangelica sanno stare su questa frontiera della missione della Chiesa, come ad esempio la Fondazione Migrantes, la Caritas, la Comunità di sant’Egidio, il Centro Banchi, altri gruppi di cristiani, diverse sorelle religiose…

Infine, rendiamo grazie al Signore che nei decenni passati ha donato alla nostra Chiesa tanti missionari e missionarie che sparsi nel mondo sono impegnati nell’annuncio del Vangelo e nella promozione umana; così come rendiamo grazie per i rapporti di collaborazione spirituale e materiale che diverse persone, gruppi e comunità della nostra Diocesi tengono vivi con questi suoi figli. Non dimentichiamo che la Chiesa di Genova ha voluto esprimere la sua missionarietà di Chiesa particolare aprendo con la Chiesa sorella di Santo Domingo una missione nel Barrio Guarricano: una realtà viva, questa, che domanda a tutti noi interessamento più costante e fattivo.

 

  1. Della coscienza missionaria di nuova evangelizzazione dobbiamo mettere in luce un altro importante aspetto: siamo debitori non solo della fede dei cristiani d’oggi, ma anche della fede delle prossime generazioni,  e dunque del futuro della fede. È con questo senso di responsabilità che più volte mi pongo la domanda: come Pastore della Chiesa di Genova che cosa devo fare per il futuro della Diocesi che il Signore mi ha affidato, come la devo preparare al suo domani, quale sarà la situazione delle nostre parrocchie e soprattutto quali sono i valori più importanti e le tradizioni veramente significative della nostra fede da trasmettere a quanti verranno dopo di noi? Ma queste domande non dovrebbero essere solo del Vescovo: dovremmo condividerle tutti noi.

Come a dire che non dobbiamo aver paura del nuovo che entra nella storia, anche nella storia della nostra Chiesa. Non aver paura del nuovo significa anche essere pronti a tentare iniziative nuove di evangelizzazione. La docilità allo Spirito, principio della novità cristiana, comporta il seguire le illuminazioni e le mozioni con fiducia e con coraggio, superando perplessità inutili, timori ingiustificati, chiusure indebite: superando soprattutto la paura delle critiche.  Anche Pietro aprì la strada del Vangelo ai pagani, in casa di Cornelio, pur sapendo che tutta Gerusalemme ne avrebbe mormorato (cfr. Atti  11, 1-3). Imparassimo anche noi la strada di un quartiere mai visitato, di una famiglia lontana, di un gruppo sociale tagliato fuori dai nostri abituali interessi…!

Perché la coscienza missionaria di nuova evangelizzazione possa portare più abbondanti e tempestivi i suoi frutti occorre puntare molto sulla comunione ecclesiale e su di un orizzonte vasto di azione: bisogna cioè, da un lato, far convergere verso l’unica grande missione della Chiesa – l’annuncio del Vangelo – le molteplici comunità e realtà di Chiesa, facendo tesoro della diversità e complementarietà di doni e carismi, di compiti e responsabilità; e, dall’altro lato, assumere come spazio operativo un ambito non puramente parrocchiale, ma diocesano, e in termini più immediati l’ambito del Vicariato. È in questa prospettiva di comunione e di missione che prende significato e necessità il Consiglio Pastorale Vicariale.

 

Il Consiglio Pastorale Vicariale

  1. La Visita Pastorale desiderati deve annoverare tra i suoi frutti desiderati anche la riconferma e il rilancio del Consiglio Pastorale Vicariale, secondo le ragioni illustrate nell’incontro con i membri dei Consigli della Diocesi tenutosi il 12 giugno u. s. In attesa che queste ragioni siano riprese e precisate nella parte dei contenuti e dei metodi operativi, indico i tre impegni specifici che affido ai Consigli Pastorali Vicariali per l’Anno Santo 2000.

È compito dei Consigli Pastorali Vicariali operare un’accurata analisi delle condizioni socio-religiose del loro territorio – non certo fine a se stessa, ma come premessa e incentivo all’impegno missionario e pastorale –  in ordine:

—  ad applicare in modo coordinato e condiviso gli “orientamenti” e le “indicazionidella Visita Pastorale all’interno delle loro comunità;

—  a preparare con la più ampia partecipazione il pellegrinaggio giubilare del Vicariato, che si concluderà nella Cattedrale ma dopo aver percorso le tre importanti tappe comuni – l’ascolto della Parola, il rito e i gesti della penitenza e della carità, il momento eucaristico o mariano – all’interno e fra le comunità che compongono il Vicariato;

—   a realizzare nella maniera più possibile completa e capillare l’iniziativa diocesana “Il Vangelo sia con te” nel Vicariato.

Non manca, dunque, un programma concreto e puntuale per i Consigli Pastorali Vicariali durante l’anno del Giubileo. L’impegno intelligente, costante e generoso ad affrontare questo programma servirà, non solo alla realizzazione dei tre compiti indicati, ma ancor più a far maturare – Consigli e comunità insieme – nell’esperienza della comunione ecclesiale e della missione dell’annuncio del Vangelo. Certo, si devono mettere in conto fatiche e delusioni: ma non c’è altro cammino per crescere nell’amore profondo alla Chiesa e per condividerne la passione missionaria!

 

Siate solleciti per le necessità dei fratelli

  1. Il monito dell’apostolo Paolo (cfr. Romani 12, 13)  urge sempre, e in un certo senso urge ancora di più nell’Anno Santo. Infatti, come non c’è vita cristiana senza carità, così non c’è Giubileo senza carità: non solo perché l’Anno Santo è grazia di conversione e di rinnovamento della vita cristiana, ma perché è esperienza privilegiata della compassione e della misericordia del Signore. Come non rivivere allora nella propria esistenza quotidiana la carità indulgente e risanatrice di Dio?

Già l’iniziativa diocesana “Il Vangelo sia con te” e ancor più lo slancio missionario di nuova evangelizzazione devono dirsi un grande atto di carità verso l’uomo. Come è stato giustamente detto, più che del “Vangelo della carità” l’uomo ha bisogno della “carità del vangelo”, perché l’uomo –  al di là delle tante apparenze contrarie – è un affamato e un assetato della verità: di quella verità che sola può svelare il “senso” della vita, della sofferenza e della morte. Come hanno scritto i vescovi italiani, “all’uomo non basta essere amato, né amare. Ha bisogno di sapere e di capire: l’uomo ha bisogno di verità” (Evangelizzazione e testimonianza della carità, 10). D’altra parte si deve dire che proprio nella carità operosa si manifesta un contenuto fondamentale delle esigenze di vita proposta dal Vangelo e si percorre la via concreta che rende credibile e affascinante l’annuncio dello stesso Vangelo.

In rapporto al Giubileo e alla grazia di cui è segno e strumento si deve dire che esso comporta un particolare impulso all’esercizio della carità ed insieme della giustizia. Lo rileva con forza il Santo Padre quando ripropone le radici bibliche del Giubileo, con la richiesta fatta a Israele della grande liberazione: il riposo della terra, la liberazione degli schiavi, il condono dei debiti. Leggiamo nel Levitico: “Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia” (25, 10). Inscindibile da quello religioso il Giubileo aveva dunque anche un valore sociale di giustizia e di carità, con lo scopo – scrive il Papa – di “venir in aiuto ad ogni bisognoso” (Tertio millennio adveniente, 13).

Anche oggi, anzi con un’urgenza più grave, il Giubileo è chiamato ad essere un momento forte di conversione personale e comunitaria a favore della giustizia e della carità. Come abbiamo già ricordato, il Papa include tra i diversi “segni” giubilari (il pellegrinaggio, la porta santa, l’indulgenza, la purificazione della memoria, la memoria dei martiri) il segno della carità. Scrive: “Un segno di misericordia di Dio, oggi particolarmente necessario, è quello della carità, che apre i nostri occhi ai bisogni di quanti vivono nella povertà e nell’emarginazione…” (Incarnationis mysterium, 12).

 

  1. Non solo come singoli – con la libertà e la responsabilità che lo Spirito Santo ci dona e ci affida nella nostra particolare condizione di vita – ma anche come Chiesa di Genova vogliamo imprimere sull’anno giubilare il sigillo luminoso della carità, divenendo sempre più servi della carità. Sotto un profilo propriamente diocesano segnalo alcune possibilità e alcuni impegni.

 

1) La scelta dell’IstitutoPaverano”, come uno dei luoghi giubilari della Diocesi, vuole ricordare a tutti e in modo permanente che la carità verso i malati e i poveri è uno degli elementi essenziali e irrinunciabili della grazia del Giubileo: come ottenere misericordia da Dio, se non usiamo misericordia – ossia un cuore che assume e condivide la miseria – verso chi ha bisogno?

 

2) Ogni pellegrinaggio giubilare dovrà sempre riservare uno spazio significativo per la carità  e per il suo concreto esercizio. Se poi il pellegrinaggio è comunitario, diventa naturale assicurare una dimensione comunitaria alla carità, sia nel modo di esercitarla che nella finalità da raggiungere. Questo dovrà essere particolarmente curato nei pellegrinaggi giubilari vicariali. Ma anche in quelli delle diverse categorie di persone si dovrebbe porre con più forza l’accento sulle esigenze umane ed evangeliche della giustizia e della carità, della riconciliazione e della pace tipiche dei vari ambienti di vita, come quello ad esempio del mondo del lavoro (cfr. Schiavi del lavoro o liberi nel lavoro? Omelia del 19 marzo 1999).

 

3)  Sono senza numero le povertà e le schiavitù – antiche e nuove – alle quali la nostra giustizia e carità devono dare risposta. E se spesso sentiamo il bisogno di procedere con forze più convergenti e coordinate e secondo l’ordine delle urgenze, altrettanto spesso avvertiamo che l’ambito sociale della carità non può non avere una sua libertà di intervento. Le persone e la vita si possono anche “programmare”, ma non più di tanto. È bello costatare nella nostra Chiesa la presenza di forme quanto mai varie di servizio umano e cristiano ai molti poveri ed emarginati: è un segno dell’inesauribile creatività dello Spirito e della straordinaria perspicacia e generosità dell’uomo e della donna.

Comunque ciò non toglie che la Diocesi – come pure altre comunità e realtà di Chiesa (anche in dialogo e collaborazione con le istituzioni e gli enti civili, sempre libere però da strumentalizzazioni e riconosciute nella propria originalità cristiana) – scelgano degli obiettivi specifici verso cui far confluire l’impegno di giustizia e di carità. È in questa linea che ancora una volta chiedo alle comunità parrocchiali della Diocesi e alla Caritas di riservare maggiore attenzione al Fondo Anti Usura  e al Conto Emergenza Famiglie. A distanza di tre anni dalla loro costituzione, rivelano un’urgenza ancora più forte. Mi è particolarmente caro esprimere qui viva gratitudine ai responsabili del FAU e del CEF per il modo professionalmente valido e per lo stile profondamente umano e cristiano con cui hanno affrontato e risolto situazioni delicate e complesse.

 

4) La nostra Diocesi si unisce quest’anno alle altre Diocesi della Chiesa Italiana che, corrispondendo alle ripetute richieste del Santo Padre, vuole impegnarsi in un’opera capillare di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul gravissimo problema dell’indebitamento dei popoli poveri del mondo. Nella Bolla di indizione del Giubileo il Papa scrive: “Il genere umano si trova di fronte a forme di schiavitù nuove e più sottili di quelle conosciute in passato; la libertà continua ad essere per troppe persone una parola priva di contenuto. Non poche Nazioni, specialmente quelle più povere, sono oppresse da un debito che ha assunto proporzioni tali da renderne praticamente impossibile il pagamento… Si deve altresì creare una nuova cultura di solidarietà e cooperazione internazionali, in cui tutti – specialmente i Paesi ricchi e il settore privato – assumano la loro responsabilità per un modello di economia al servizio di ogni persona” (Incarnationis mysterium, 12). La Commissione diocesana “Giustizia e Pace”, in stretto collegamento con il Comitato Ecclesiale Italiano, continuerà e rafforzerà il suo impegno nel contesto specifico della nostra Chiesa con iniziative culturali e di aiuto economico per la riduzione del debito estero dei Paesi più poveri.

 

5) Mi sono chiesto se in occasione dell’Anno Santo 2000 non fosse opportuno che come Chiesa di Genova lasciassimo una specie di “memoria” della celebrazione del Giubileo con un’opera diocesana significativa di carità. I pareri che ho sollecitato non sono approdati, almeno sinora, a delle proposte convergenti e convincenti, se non quella di “dare nuovo impulso a opere esistenti, necessarie ma deboli perché non sufficientemente conosciute e sostenute, rafforzandole con un coordinamento organico”.

È comunque necessario imprimere nuovo slancio al cammino della carità feriale, segnata dallo spirito evangelico della mano sinistra che non sa quello che fa la mano destra (cfr. Matteo 6, 3). Decisivo è pure l’impegno giubilare per una carità che mette più profonde radici nel cuore e che sa produrre frutti più ricchi e visibili. E questo da parte non solo dei singoli ma anche delle comunità e realtà ecclesiali come tali. Come già l’iniziativa giubilare “Il Vangelo sia con te” è segno e stimolo per un più energico e generale slancio missionario di nuova evangelizzazione, così l’esercizio della carità come componente necessaria della celebrazione del Giubileo è occasione e invito perché le nostre comunità cristiane si configurino come comunità veramente cristiane per un’effettiva scelta preferenziale dei poveri e degli emarginati. Il Signore ci chiede di essere luce del mondo, sale della terra, lievito nella massa non solo per la nostra fede, ma anche per la nostra carità: in una parola, per l’adesione al Vangelo che è il Vangelo della carità.

 

6) In questa prospettiva possiamo comprendere l’importanza dei Centri vicariali di Ascolto. Mentre ci rallegriamo del notevole cammino che con la generosa collaborazione di sacerdoti e di laici i Centri vicariali di Ascolto hanno compiuto, sentiamo il bisogno di proseguirlo così da giungere a costituire e ancor più a rendere funzionanti in tutti i Vicariati – singoli e in qualche caso accorpati – questi Centri. Anche questo impegno diocesano riveste il significato di una risposta agli “orientamenti” e alle “indicazioni” della Visita Pastorale e insieme alla grazia del Giubileo.

Quando gli operatori, ben preparati e motivati, lavorano seguendo un metodo di approccio profondamente umano ed evangelico alle persone che vengono al Centro e quando la comunità viene sollecitata ad un coinvolgimento responsabile, i Centri vicariali di Ascolto possono sviluppare la loro opera più preziosa, quella educativa al servizio della carità, mediante l’informazione, la sensibilizzazione, l’utilizzazione convergente delle diverse risorse, il ricorso anche alle istituzioni per dare concreta e mirata risposta alle varie forme di povertà e di emarginazioni presenti nel territorio.

 

 

Conclusione

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Eccomi, sono la serva del Signore

 

  1. Al termine di questa Lettera, mentre i nostri pensieri e i nostri desideri si rivolgono alla celebrazione sempre più vicina del Grande Giubileo, non possiamo non guardare al volto di Maria, la Vergine Madre di Gesù. Nella memoria che ci apprestiamo a fare della nascita del Salvatore a duemila anni di distanza è iscritta anche la memoria di Maria: l’Anno Santo 2000 è indivisibilmente celebrazione di Cristo e celebrazione di Maria.

            L’icona evangelica che vogliamo brevemente meditare per vivere l’evento di grazia del Giubileo in comunione profonda con Maria e con i suoi stessi sentimenti di fede e di amore è quella dell’Annunciazione.

            In apertura c’è l’invito alla gioia: “Rallegrati, o piena di grazia, il Signore è con te” (Luca 1, 28). La gioia di Maria conduce a pienezza la gioia messianica per la venuta del Salvatore promesso: a gioire è sì la fanciulla di Nazaret, ma in lei è l’intero popolo eletto. La gioia del Giubileo è allora una eco, una partecipazione alla gioia della Madre. È bello pensare che madre e figli sono uniti nel godere per la grazia misericordiosa di Dio che nella persona del Verbo incarnato è entrato nella storia per rimanervi per sempre.

La piccola casa di Maria è spettatrice stupita del più grande “miracolo” della storia: questa giovane donna è il termine vivo della meravigliosa azione della Santissima Trinità. Il Padre la ama come figlia prediletta, a immagine del Figlio eternamente da lui generato; lo Spirito Santo rende prodigiosamente fecondo il grembo verginale di Maria; il Figlio assume da lei la carne umana divenendo veramente figlio di Maria e nostro fratello. La Vergine Madre fa così un’esperienza unica e irripetibile del mistero di Dio: è raggiunta, fasciata, penetrata, trasformata dall’infinito amore della Trinità. Non c’è nella storia capolavoro di grazia come quello di Maria, la vivente strada umana che Dio ha scelto per venire a noi. E così anche noi, grazie alla divina maternità di Maria, siamo coinvolti nel medesimo mistero dell’infinito amore del Dio Trino e Uno: anche noi veniamo inseriti nel cuore della Trinità, meglio la Trinità sceglie anche noi come sua desiderata e amata dimora.

Maria risponde: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Luca 1, 38). La risposta è dunque tutta nella sua fede: che è affidamento libero al disegno di Dio, adesione amorosa alla sua volontà, consacrazione totale di se stessa per il presente e per il futuro – quando starà ai piedi della Croce – alla gloria del Padre. Così Maria sta innanzi a noi come la perfetta discepola della Parola (cfr. Luca 11, 27-28), la custode attentissima di questa Parola (cfr. Luca 2, 19. 51), la prima proclamata beata per la fede (cfr. Luca 1, 45), il modello insuperabile della fede. Come figli, chiediamo alla Madonna, alla Virgo fidelis,  di ottenerci da Dio il dono di una fede umile, genuina, ardente, che ci renda partecipi dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo come fonte e forza di una vita di santità: solo qui il Giubileo trova il suo vero e decisivo approdo.

E dopo l’annunciazione, colma di Cristo e del suo Spirito, Maria “si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse un fretta una città di Giuda” (Luca 1, 39). Ella compie il suo primo “pellegrinaggio” come Madre di Dio. Va da Elisabetta portando un dono preziosissimo, inimmaginabile: non tanto la carità di un servizio premuroso, quanto la carità di una santificazione operata dalla presenza nascosta del Verbo di Dio fatto uomo nel suo grembo di donna (cfr. Luca 1, 41. 44).

Il pellegrinaggio di Maria è la primizia della missione santificatrice che la Chiesa compie quotidianamente: donare Cristo e il suo vangelo a ogni uomo. È così manifestata la dimensione missionaria della nostra vita di cristiani: una dimensione che il Giubileo intende riproporre con forza. L’anno di grazia del Signore, infatti, ci chiama ad essere, come Maria, destinatari fortunati e soggetti attivi di salvezza e di santità nella Chiesa e nella società.

 

  1. La Vergine dell’Annunciazione ci prenda per mano e ci accompagni, dunque, in questo grande pellegrinaggio giubilare verso Gesù, nostra unica salvezza e nostra somma gioia. Con lei cantiamo il Magnificat all’Onnipotente che anche nella Chiesa e in noi fa “grandi cose” e alla sua misericordia che “di generazione in generazione si stende su quelli che lo temono” (Luca 1, 49-50).

Ci doni lei, la vergine madre capolavoro ineguagliabile della Santissima Trinità, di partecipare intimamente ai suoi stessi sentimenti nel pregare quest’anno con le parole del Santo Padre:

 

  1. Sii benedetto, o Padre.

che nel tuo infinito amore

ci hai donato l’unigenito tuo Figlio,

fattosi carne per opera dello Spirito santo

nel seno purissimo della Vergine Maria,

e nato a Betlemme duemila anni or sono.

Egli s’è fatto nostro compagno di viaggio

e ha dato nuovo significato alla storia,

che è un cammino fatto insieme

nel travaglio e nella sofferenza,

nella fedeltà e nell’amore,

verso quei nuovi cieli e quella nuova terra

in cui Tu, vinta la morte, sarai tutto in tutti.

Lode e gloria a Te, Trinità Santissima,

            unico e sommo Dio!

 

  1. Per tua grazia, o Padre, l’Anno giubilare

sia tempo di conversione profonda

e di gioioso ritorno a Te;

sia tempo di riconciliazione tra gli uomini

e di ritrovata concordia tra le nazioni;

tempo in cui le lance si mutino in falci

e al fragore delle armi succedano i canti della pace.

Donaci, o Padre, di vivere l’Anno giubilare

docili alla voce dello Spirito,

fedeli nella sequela di Cristo,

assidui nell’ascolto della Parola

e nella frequenza alle sorgenti della grazia.

Lode e gloria a Te, Trinità Santissima,

            unico e sommo Dio!

 

  1. Sostieni, o Padre, con la forza dello Spirito

l’impegno della Chiesa per la nuova evangelizzazione

e guida i nostri passi sulle strade del mondo,

per annunciare Cristo con la vita

orientando il nostro pellegrinaggio terreno

verso la Città della luce.

Risplendano i discepoli di Gesù per il loro amore

verso i poveri e gli oppressi;

siano solidali con i bisognosi

e larghi nelle opere di misericordia;

siano indulgenti verso i fratelli

per ottenere essi stessi da Te indulgenza e perdono.

Lode e gloria a Te, Trinità Santissima,

            unico e sommo Dio!

 

  1. Concedi, Padre, che i discepoli del tuo Figlio,

purificata la memoria e riconosciute le proprie colpe,

siano una cosa sola, così che il mondo creda.

Si dilati il dialogo tra i seguaci delle grandi religioni,

e tutti gli uomini scoprano la gioia di essere tuoi figli.

Alla voce supplice di Maria, madre delle genti,

si uniscano le voci oranti degli apostoli

e dei martiri cristiani,

dei giusti di ogni popolo e di ogni tempo,

perché l’Anno Santo sia per i singoli e per la Chiesa

motivo di rinnovata speranza

e di giubilo nello Spirito.

Lode e gloria a Te, Trinità Santissima,

            unico e sommo Dio!

 

  1. A Te, Padre onnipotente,

origine del cosmo e dell’uomo,

per Cristo, il Vivente,

Signore del tempo e della storia,

nello Spirito che santifica l’universo,

la lode, l’onore, la gloria

oggi e nei secoli senza fine. Amen!

 

 

                                                                                                          + Dionigi Card. Tettamanzi

                                                                                                               Arcivescovo di Genova

Genova, 6 agosto 1999

Festa della Trasfigurazione del Signore

 

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