Carissimi amici e amiche, sono onorato di poter introdurre la 49a Settimana Sociale dei cattolici italiani.
Ci ritroviamo a Taranto dopo un cammino impervio. Se ci guardiamo alle spalle, e ripensiamo alla bellissima esperienza di Cagliari nell’ottobre 2017, sembra essere passato tantissimo tempo e invece sono trascorsi soltanto tre anni. Tre anni molto duri, in cui soltanto adesso iniziamo a intravedere la luce in fondo a questo lungo tunnel della pandemia. La luce di Cristo, che è speranza per tutti i popoli, ci accompagna dunque in queste giornate promosse dalla Chiesa in Italia che rappresentano una prima tappa del Cammino sinodale che abbiamo appena iniziato.
Questo appuntamento è, senza dubbio, l’espressione di una Chiesa che si apre e dialoga con il mondo. E lo facciamo ritrovandoci qui a Taranto, una città portuale sorta in un luogo storicamente strategico di quel bacino del Mediterraneo che rappresenta, non solo il cuore pulsante della nostra civiltà, ma anche il mare della “triplice famiglia di Abramo”. Il mare, cioè, in cui si affacciano tre diversi mondi religiosi e culturali – ebrei, cristiani e islamici –che possono vivere in pace, come auspicava Giorgio La Pira.
Taranto, però, non è solo un grande porto ma è anche una città-simbolo della siderurgia italiana e uno dei maggiori complessi industriali in Europa. Come non ricordare, infatti, la visita di Paolo VI all’acciaieria Italsider nel 1968? In quegli anni, carichi di tensioni sociali, Papa Montini celebrò la Messa di Natale tra i lavoratori degli altiforni di “quel colossale centro siderurgico” e pronunciò un’omelia le cui parole risuonano ancora oggi nei nostri cuori con sapienza profetica.
«Noi facciamo fatica a parlarvi» disse Paolo VI agli operai. «Ci sembra che tra voi e Noi non ci sia un linguaggio comune». Eppure, continuò il Pontefice, «vi diremo una cosa semplicissima, ma piena di significato»: «Lavoratori, che ci ascoltate: Gesù, il Cristo, è per voi!». Queste semplici parole, pronunciate in un contesto storico caratterizzato da passioni veementi e scontri in fabbrica, avevano un grande obiettivo: ricordare a tutti i lavoratori che la Chiesa è “madre”, non è cieca “ai bisogni” e non è “sorda” alle grida di aiuto degli ultimi. Perché la Chiesa, concluse magistralmente Paolo VI, riconosce «il bisogno di giustizia del popolo onesto, e lo difende, come può, e lo promuove».
Queste parole, a più di 50 anni di distanza, conservano ancora oggi, in questa Settimana Sociale il cui titolo è «il mondo che speriamo», la loro straordinaria attualità. Il mondo contemporaneo è molto diverso da quello vissuto da Montini. Eppure, oggi come ieri, la Chiesa è madre, e non matrigna, ha a cuore tutti i suoi figli, a partire da quelli più fragili e indifesi, e in virtù di questo grande amore verso l’umano – e non certo in nome di un’ideologia – promuove, come disse Paolo VI, «la giustizia civile e sociale».
Perciò dobbiamo chiederci: quale significato assume, nel XXI secolo, la volontà di promuovere la «giustizia civile e sociale»? Innanzitutto, significa difendere e valorizzare, in ogni latitudine e in ogni circostanza, il valore incalpestabile della dignità umana. La persona umana non si può sfruttare, non si può mercificare e non si può uccidere. Nessuna ragione economica può legittimare qualsiasi forma di schiavitù fisica o morale di un uomo, di una donna o di un bambino. Sono profondamento amareggiato e deluso per i troppi incidenti che avvengono nell’ambito del lavoro… Per non dire dei feriti!!! «La difesa e la promozione della dignità della persona umana – ha scritto Giovanni Paolo II – ci sono state affidate dal Creatore; di essa sono rigorosamente e responsabilmente debitori gli uomini e le donne in ogni congiuntura della storia».
In secondo luogo, promuovere la «giustizia civile e sociale» assume oggi un significato ulteriore: quello proposto nella Laudato si’ e che ci esorta a sviluppare e a promuovere «un’ecologia integrale». Che non è soltanto un richiamo alla difesa dell’ambiente in cui siamo immersi, ma è soprattutto un’esortazione a vivere un’esistenza “interdipendente”. Gli esseri umani, infatti, non sono delle monadi individuali che vivono per sé stesse ma sono intrinsecamente degli esseri-in-relazione: in relazione con il Creatore e in relazione con il Creato. «Se la terra ci è donata – scrive Papa Francesco – non possiamo più pensare soltanto a partire da un criterio utilitarista di efficienza e produttività per il profitto individuale».
Si tratta, come capite, di un’intuizione di grande portata storica, che innova profondamente il magistero sociale della Chiesa cattolica. La dottrina esce dalla bottega e dalla fabbrica e abbraccia il mondo intero, l’Oikos, la nostra casa comune. Secondo la proposta di Francesco, l’individualismo e l’utilitarismo, che caratterizzano così profondamente la mentalità collettiva del mondo contemporaneo, possono trovare un argine in una comunità di uomini e di donne che riscopre, non solo il valore della relazione interpersonale, ma anche la centralità dell’interdipendenza.
L’interdipendenza non è tanto una categoria sociologica, quanto un valore aggiunto per la società contemporanea. E lo abbiamo visto durante questa pandemia. Perché se è vero che il virus si è diffuso velocemente in un mondo ormai globalizzato, è anche vero che, altrettanto velocemente, è stata costruita una difesa sanitaria e sociale contro l’epidemia. Una difesa che, però, come sappiamo benissimo non ha la stessa forza nel Sud del mondo. Ancora oggi, dunque, i popoli della fame vivono drammaticamente la distanza sociale con i popoli dell’opulenza.
La pandemia ha, pertanto, lasciato una grande eredità. Un’eredità, purtroppo, durissima e incalcolabile nelle nazioni più povere. E un’eredità, invece, ben visibile nei Paesi più sviluppati, come l’Italia. Penso ai tanti nostri cari morti, alle sofferenze di moltissime famiglie, alla difficile situazione economica di molte aziende e, infine, al drammatico bilancio in termini di frustrazione sociale. Le immagini delle proteste e dei disordini di piazza in alcune città italiane mi hanno colpito profondamente. C’è un malessere sociale che cova nelle viscere della nostra società e che riemerge ogni volta che c’è una crisi umanitaria: in precedenza, erano i migranti; oggi la pandemia. Molto spesso, a pagare le conseguenze di tutto ciò, sono i nostri giovani, i nostri figli.
Occorre, pertanto, uno balzo in avanti. Serve uno sguardo lungo sulle sorti dell’Europa e soprattutto dell’Italia. Alla Settimana Sociale di Cagliari auspicai un piano di sviluppo per l’Italia che partisse dalla valorizzazione della fragile bellezza del nostro Paese: un grande investimento sul patrimonio paesaggistico, culturale e architettonico dell’Italia. Confermo tutto quello che dissi tre anni fa. Mai come oggi è necessario un nuovo patto sociale tra tutti gli uomini e le donne italiane di buona volontà per mettere a tema l’Italia e il suo futuro facendo proposte concrete e non solo belle parole sul nostro Paese.
Ma oggi, accanto a un piano di sviluppo per l’Italia c’è bisogno anche di altro. Qualcosa di più profondo. Serve una profezia sull’Italia. È necessaria una voce alta e autorevole che sappia leggere i segni dei tempi: ovvero sappia comprendere e interpretare questo scorcio di XXI secolo. Sbaglieremmo tutti quanti se pensassimo che finita la pandemia tutto ritornerà come prima. Non sarà così. Ormai da anni – Papa Francesco ne parlò nel 2015 a Firenze – stiamo vivendo un eccezionale cambiamento d’epoca che necessita di nuove categorie, nuove parole-chiave e anche nuove personalità: un nuovo umanesimo fondato su Cristo. In Lui è il nuovo umanesimo.
Il baricentro del mondo sembra spostarsi sempre più verso Oriente. E anche se la potenza politicamente più importante si trova collocata nella parte più occidentale del Pianeta, l’Italia e l’Europa rischiano di trovarsi in una grande terra di mezzo. Che rischia di non essere una terra di raccordo, ma una terra di periferia. Una terra di vecchi, caratterizzata da un gelido inverno demografico, da uno sviluppo economico sempre più asfittico e, infine, una terra che sta abbandonando, neppure troppo lentamente, il cristianesimo. In questo contesto, l’Italia rischia di essere l’estrema periferia di questo mondo periferico. Come capite non è una prospettiva entusiasmante. Lo Spirito di Dio, però, continua a soffiare al di là delle nostre competenze, intelligenze e capacità.
Per questi motivi, ho detto che serve una visione profetica e nuovi protagonisti. Quando parlo di profezia mi riferisco, per esempio, alla “profezia di pace” fatta più di 50 anni fa da Giorgio La Pira e che vedeva la costruzione di un nuovo mondo di pace, solidarietà e carità nel Mediterraneo. Una profezia che per l’Italia svela anche una grande missione per il futuro: essere alla testa di quei promotori che vogliono realizzare concretamente questo mondo di pace.
Quando parlo di nuovi protagonisti mi riferisco soprattutto ai giovani. A tutti quei giovani, però, che sono veramente persone libere: ovvero, che non si lasciano sedurre dalle vecchie ideologie del Novecento e che non rimangano abbagliati dai nuovi demagoghi. L’epoca dei pifferai magici è passata e non deve tornare più.
Il Santo Padre li ha incoraggiati con il suo messaggio per la XXXVI Giornata mondiale della gioventù: «Giovani risollevate il mondo! Ora, come san Paolo, alzatevi e testimoniate le opere che Dio sta compiendo in voi».
La vostra numerosa presenza qui a Taranto, oggi, mi rincuora e mi consola. L’auspicio è che possiate essere protagonisti in questa Settimana Sociale e che possiate organizzare un coinvolgimento nelle diocesi perché i temi affrontati qui a Taranto siano oggetto di approfondimento e diventino occasione per fare scelte concrete. La sinodalità passa dalle vostre gambe capaci di andare incontro ai vostri coetanei, dalle vostre mani capaci di prendersi cura e dal vostro cuore capace di appassionarsi alla proposta dell’ecologia integrale.