La nuova traduzione del Padre Nostro ci invita a sostare per un momento su questo testo che riguarda non solo la preghiera liturgica della Chiesa, ma anche quella personale, familiare e comunitaria.
La scelta della nuova traduzione del Padre Nostro viene operata a partire dalla Bibbia della Cei del 2008, che riportava due cambiamenti. Il primo è quello che aggiungeva un “anche” alla preghiera per la remissione dei debiti: “rimetti a noi nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Il secondo, più noto, è quello che modifica la supplica “non ci indurre in tentazione” in “non abbandonare alla tentazione”.
I criteri utilizzati per operare questi piccoli cambiamenti sono diversi: nel primo caso, si tratta di garantire una maggiore fedeltà al testo originale greco e alla sua traduzione Latina, che riportava un “anche” (sicut “et” nos dimittimus…); Nel secondo caso, il criterio utilizzato è stato di tipo più pastorale dal momento che si è ritenuto che la traduzione precedente, pur corretta dal punto di vista lessicale (“non ci indurre”), corresse il rischio di trasformare Dio Padre nel tentatore.
Non sono mancate, infatti, altre proposte, come ad esempio: “fa’ che non cadiamo nella tentazione” (come nella versione spagnola e Francese), oppure: “Non abbandonarci nella tentazione”, o ancora: “nella tentazione, non abbandonarci”. Addirittura c’era chi riteneva che l’antico “Non ci indurre in tentazione” fosse ancora la traduzione migliore, più fedele all’originale greco, anche se indubbiamente esposto a fraintendimenti. Nella supplica “Non abbandonarci”, noi chiediamo semplicemente che ci stia a fianco sempre, quando siamo nella tentazione e quando stiamo per entrarvi.
Certamente può essere una traduzione soddisfacente: difficile è il compito di chi è chiamato a tradurre il senso di un testo dalla cultura di partenza a quella di arrivo, rimanendo fedele all’originale.
Ora che è giunto il momento di cambiare, tutti possiamo cogliere di quanto ogni traduzione abbia comunque bisogno di un’interpretazione e come anche le altre espressioni del Padre nostro (da “sia santificato il tuo Nome” a “Sia fatta la tua volontà”), devono essere decifrate per essere pienamente comprese e apprezzate nel loro senso più profondo.
Un altro piccolo cambiamento lo troviamo nella monizione affidata al diacono, prima dello scambio di pace, da “il segno” a “il dono della pace”. Il linguaggio del dono che racchiude il senso profondo del Mistero eucaristico: fa la sua comparsa nei riti di comunione della Messa e sottolinea il fatto che, prima di essere un compito e un impegno, la pace del Signore, come la fede, la speranza e la carità, è un dono che da Lui proviene.
La presenza del dono della pace all’interno dei riti di comunione è una caratteristica singolare del rito romano: tutti gli altri riti cristiani (quello ambrosiano e quello bizantino, ad esempio) prevedono il gesto dello scambio della pace prima di entrare nella liturgia eucaristica. Il motivo di questo anticipo è custodito nel vangelo, che riporta il detto di Gesù: “Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,26-27). Da qui il gesto di pace prima della presentazione dei doni.
Ricordiamo che Benedetto XVI ha invitato a moderare il gesto della pace, evitando di assumere posizioni eccessive. Di qui l’invito alla sobrietà di un gesto che si limita a scambiare la pace con chi sta più vicino.
Altro elemento è l’uso del canto per il segno della pace: la Congregazione per il Culto Divino 2004, vieta il canto della pace e al contempo chiede ai ministri di non uscire dal presbiterio per compiere il segno della pace. Appartiene infatti alla logica del simbolo la capacità di mostrare il livello più profondo del senso di un gesto attraverso, anche e soprattutto, la sobrietà.
Lo scambio della pace rivolto a pochi è simbolo di un dono che ci scambiamo come proveniente da Signore, destinato a tutti. In ogni caso, l’invito a far risuonare il linguaggio del dono corrisponde all’importanza di cogliere il sentimento della pace come dono del Padre offerto in tutta la celebrazione eucaristica: ai riti di inizio (“la grazia e la pace di Dio… siano con tutti voi”; “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra…”), alla comunione (“dona a noi la pace”); al congedo (“la Messa è finita, andate in pace”).
Nella liturgia eucaristica, al momento della frazione del pane, sono concentrati gesti e parole che hanno come scopo non solo quello di invitare ad accedere alla comunione, ma anche a riconoscere nel pane spezzato l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo e a prepararsi a ricevere personalmente e in modo comunitario il Dono eucaristico. La novità consiste in un semplice spostamento delle parole che accompagnano il gesto di mostrare l’ostia sollevata sulla patena o sul calice. Anziché la successione: “Beati gli inviatati alla cena del Signore…”, troviamo la successione: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo. Beati gli invitati alla cena dell’Agnello”. Il motivo di questo spostamento non è altro che quello della fedeltà al modello dell’edizione latina, che prevede la formula: “Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi. Beati qui ad cenam Agni vocati sunt”. Questo piccolo cambiamento è come un invito a riscoprire la forza e il valore dell’ostensione eucaristica del pane spezzato.
Mons. Gianluigi Ganabano
Direttore Ufficio liturgico