Il movimento intorno alla figura di Maria dal punto di vista della riflessione teologica ma soprattutto del cammino dogmatico, ha come percorso una traiettoria di tipo espansivo. All’inizio Maria è la madre di Gesù, di quel profeta che si manifesta come l’esegeta di Dio, usando un linguaggio giovanneo, il quale ha rivelato la dimensione profonda del Padre, quel Dio amore, che dona continuamente la vita e la pienezza di essa. Maria è presente nei momenti drammatici e straordinari della passione e della resurrezione. La venuta del Paraclito orienta la mente e il cuore dei primi seguaci verso la totalità del Dio che si è fatto carne. Maria diventa da subito donna verso la quale porre lo sguardo e le proprie afflizioni. Nei secoli del tre-quattrocento il definirsi del credo cristiano all’interno del Mediterraneo vede in Maria l’opera della grazia di Dio, ella è l’arca che ha portato la Vita, ella è la Madre di Dio. Nel contesto del modernismo, articolo precedente, ecco la definizione dell’Immacolata concezione, con il complesso tema del peccato originale. L’ultimo passo che riguarda Maria di Nazareth ci porta al primo novembre del 1950, con la Costituzione Apostolica Munificentissumus Deus, dove si annuncia, dichiara e definisce come dato rivelato che Maria, qui descritta come, l’immacolata, la vergine e la madre, fu assunta (passivo divino) in corpo e anima alla gloria celeste. Sono passati settant’anni da quella proclamazione, ed oggettivamente nel contesto attuale tale linguaggio e il suo messaggio non sempre suonano semplici ed efficaci.
E’ necessario recuperare alcuni contesti, prima di porsi individualmente di fronte a tale dogma e cercare di approfondirlo, anche con fatica. Ne analizziamo uno: la gloria celeste. Il testo magisteriale non parla di cielo, ma parla di gloria. Il termine kabod, gloria, nella tradizione biblica ebraica significa ciò che dà consistenza all’essere a cui è attribuito. In maniera preponderante la gloria è riferita a Dio e per prima cosa si pone come dato epifanico. La gloria di Dio è la manifestazione e la presenza di Dio stesso nella sua consistenza. Alla domanda su come e quando Dio manifesta la sua gloria, la tradizione biblica risponde attraverso la creazione e la salvezza. I Salmi sono un continuo canto alla gloria di Dio: I cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l’opera sua… Lo sviluppo nei testi neotestamentari lega la gloria al Figlio, sia orientando questa alla dimensione intra-trinitaria sia con uno sguardo escatologico. Con enorme approssimazione possiamo dire che la gloria è il tratto di Dio, non come manifestazione grandiosa ma come relazione totalizzante di amore che apporta vita, genera vita (creazione) e non la abbandona mai (salvezza) neanche nelle pieghe più oscure e nelle ferite dell’umanità. La creazione stessa attende di entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio (cf. Romani 8). Entrare nella gloria è l’elemento escatologico finale, tutta la storia, nonostante tutto, si muove verso il suo fine ultimo, il Cristo glorioso, che darà compimento ad ogni cosa, che consolerà ogni lacrima, che svelerà come ogni attimo, anche il più fugace, è recuperato nella pienezza dell’Amore: la gloria di Dio, la gloria celeste, con diverso linguaggio.
Tutto concorre verso questo telos (fine), la fine di ciascun dato biologico ha un fine ricapitolativo, il Figlio lo ha rivelato nella sua discesa agli inferi (non all’inferno) come traduce la tradizione orientale, e ha risollevato la vita nella morte.
Se dunque Maria è posta come modello dell’umanità che è colmata di grazia (piena di grazia), che si dona integralmente, che genera l’Amore, ecco che in lei è stata posta nella riflessione dogmatica anche la pienezza del telos, del fine: tutta la sua dimensione storica, dalla nascita alla morte sono nel segno di Dio, nella relazione con lo Spirito e conducono all’integrale pienezza della vita: la gloria celeste, la pienezza del senso, il respiro colmo che in Cristo escatologicamente si realizza.
Marco Gaetano