Nell’antico testamento esistono pochi e parziali riferimenti al concetto di resurrezione ma ciò non vuol dire che ad una più attenta analisi essa non sia presente in maniera sostanziale anche all’interno dei primi tre capitoli della Bibbia nei quali gli elementi centrali sono la creazione e l’ingresso del male e della morte nel mondo attraverso quell’atto che verrà in seguito chiamato peccato originale.
Se ci mettiamo in ricerca si possono scorgere una serie di richiami in riferimento alla resurrezione, che cercherò di evidenziare brevemente.
Risurrezione e morte sono strettamente legate. Non si risorge senza prima “morire”, e questo passaggio attiene sia alla dimensione della realtà, sia allo spazio del simbolo. L’evidenza del legame è esaltata dall’esperienza umana del Messia: la morte precede indissolubilmente la risurrezione.
Mi permetto di osservare che il famoso adagio “bisogna arrivare vivi alla morte” sia in questo senso incompleto. Penso invece che, in maniera solo apparentemente paradossale, si debba arrivare vivi alla risurrezione.
Mi aiuta in questo ragionamento l’inizio del c. 2 di Genesi: la creazione è compiuta, ma Dio non “finisce”, “cessa” il lavoro e si “riposa”. Il verbo ebraico shabat, usato in Gen 2,2-3 in riferimento all’agire di Dio ha infatti questo significato ed è questo il senso dello shabbat per gli ebrei (si riposano, infatti, e cessano le loro attività, che ricominceranno il giorno dopo), e ugualmente il Sabato Santo cristiano assume la valenza di sospensione, assenza, una sorta di “riposo” nel sepolcro prima della risurrezione.
Dunque, né per la Scrittura, né per l’ebraismo, e neppure per il cristianesimo la fine è veramente la Fine. Con la morte non finisce la vita, così come non si conclude la creazione il settimo giorno. Dio continua a creare senza sosta, così come oltre la morte del Figlio troviamo la risurrezione. Perciò, se la morte non è l’ultima parola e con essa la vita non finisce, diventa inevitabile augurarsi di arrivare “vivi” alla risurrezione, ovvero vivi al vero atto definitivo della nostra esistenza.
Ma questo, se permettete il gioco di parole, è solo l’inizio. Nei primi tre capitoli della Scrittura diversi altri elementi richiamano quantomeno la continuità della vita. Mi soffermo in particolare su uno: il rapporto tra immortalità e risurrezione. Si dice spesso che i progenitori fossero immortali, e che la morte sia entrata nel mondo a causa dell’azione del serpente, del frutto mangiato, del primo peccato. Ma è questa la verità? L’’adam e la sua donna erano veramente immortali?
Il testo biblico non lo afferma, ma dice semplicemente che, qualora l’uomo e la donna avessero mangiato del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male sarebbero sicuramente morti, ciò non vuol dire quindi che fossero immortali. In realtà è più corretto dire che si “credevano” immortali, e che la conoscenza dell’albero li avrebbe resi arbitri del proprio destino, sostituendo il loro criterio di giudizio a quello di Dio. Insomma, i progenitori sono riusciti a conoscere il male e il bene, ma secondo un “criterio soggettivo”, secondo l’uomo, perché tale era il “contenuto” dell’albero: la conoscenza umana. Una tale supposta conquista rivela però, in maniera paradossale, il limite: essi sono umani, nati dalla terra, sono creature, e sono “mortali”. In questo senso la morte entra nel mondo o, meglio, viene conosciuta e ne viene evidenziata la sostanza.
L’immortalità non esiste ed è bene che non esista. È un’aspirazione, ed è umana, non divina (il Messia, infatti, risorge) e genera una conoscenza del bene e del male che è relativa: ciò che è bene per me, può essere male per un altro. È il mito del vampiro, nato nella prima metà dell’Ottocento, in ambiente romantico, in cui l’anelito alla gloria e all’immortalità era diffuso tra artisti e letterati. Il Dracula di Stoker cerca l’immortalità e si ritrova in una non-vita, che genera morte tra gli altri uomini per la sua insaziabile necessità di sangue. Diciamolo pure: l’immortalità non è umana e per questo genera morte.
Umana è invece la risurrezione. Non a caso Dio proibisce il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male e non di quello della vita. La vita infatti appartiene a Dio, ed è divina, e anche per questo è profondamente umana. L’uomo “caduto” esce da Eden, vestito degli abiti cuciti da Dio stesso, quindi mai solo e mai definitivamente “morto”, e la sua uscita non è la fine, ma l’inizio del cammino, che lo riporterà proprio lì da dove era partito. Non ci ritroviamo infatti in un giardino il giorno dopo la risurrezione nel Vangelo di Giovanni, e non è qui che Maria di Magdala vede il “giardiniere” che si rivelerà poi essere il Risorto? Un Figlio che passeggia come il Padre in un giardino. E nella Gerusalemme Nuova di Apocalisse non si trova forse un altro giardino dove, guarda caso, assieme all’agnello è presente anche l’albero della vita?
Uscire da Eden è una nascita, e la risurrezione è un cammino. Dio protegge l’albero della vita perché l’uomo necessita di un cammino che lo renda consapevole del fatto che la vita stessa appartiene a Dio, il quale la crea e la dona ogni giorno. E soprattutto il destino dell’uomo non è l’immortalità, ma la risurrezione, proprio perché Dio stesso è morto e risorto. Non siamo vampiri, costretti in una tomba al sorgere del sole, ma siamo il sole che sorge di nuovo dopo una lunga notte. In fondo è tutto molto semplice: basta non sentirsi immortali, ma creati e ri-sorgenti, ed è questo il messaggio che ci offre la Scrittura fin dai suoi primi capitoli.
Buona risurrezione a tutti.
Roberto Bisio