Come si fa a non morire?

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Nel capitolo 5 del libro di Genesi si trova una lunga, e in apparenza anche un po’ noiosa, lista di patriarchi: i cosiddetti pre-diluviani, perché vissuti “prima del diluvio”, che costituiscono la discendenza di Adamo fino a Noè, attraverso Set. Incontriamo questo elenco dopo un altro, più breve, che concludeva il capitolo 4, e raccontava la discendenza di Caino. La lista di Genesi 5 contiene alcuni personaggi che già figuravano nel capitolo 4, ma che qui vengono presentati in maniera più positiva. Tra i nomi che ritornano troviamo Enoc, figlio diretto di Caino in Genesi 4, figlio di Iered nella genealogia di Set. In questo secondo contesto Enoc è oggetto di una breve quanto peculiare considerazione, che per la sua natura particolare riportiamo per intero: “Enoc aveva sessantacinque anni quando generò Matusalemme. Enoc camminò con Dio, dopo aver generato Matusalemme, visse ancora per trecento anni e generò figli e figlie. L’intera vita di Enoc fu di trecentosessantacinque anni. Poi Enoc camminò con Dio e non fu più perché Dio l’aveva preso” (Gen 5,21-24).
Analizzando il testo, ciò che richiama immediatamente l’attenzione è il trapasso di Enoc, che non sembra “morire” in senso stretto, ma venir “preso” da Dio. Il verbo qui utilizzato è l’ebraico laqach, “prendere”, che è il medesimo usato in Gen 2,15 per dire che Dio “prese” l’’adam e lo pose nel giardino di Eden. Questa similitudine è un importante elemento di congiunzione delle due situazioni perché anche Enoc, secondo la successiva tradizione intertestamentaria, salirà alla dimora di Dio, al “palazzo del re”, il cui giardino in ebraico si chiama pardes, da cui il nostro “paradiso”.
Questo “prendere” ha generato qualche problema di comprensione anche all’interno del testo biblico, tanto che Siracide usa per descrivere l’azione di Dio il verbo “rapire” (Sir 44,16), e la lettera agli ebrei il termine “trasportare via” (Eb 11,5).
Facciamo ora un passo avanti nella nostra riflessione e interroghiamoci sul perché Enoc “non è morto” o, per essere precisi semplicemente “non fu più” (è rinato? È risorto? Ha cambiato vita?) ricordando che il testo per ben due volte dice che “camminò con Dio”. Se stiamo sui significati potremmo forse incontrare qualcosa di utile per la nostra vita.
Enoc “non è più” per la vita umana ordinaria, ma viene “preso” da Dio perché la morte non rappresenta l’ultima parola, concetto che si ripete e che abbiamo già incontrato nell’analisi del capitolo 3 di Genesi. Il fatto di essere “preso” non a caso genererà una vera e propria tradizione, che verrà sviluppata in buona parte della letteratura ebraica degli ultimi secoli prima della venuta di Cristo, in particolare in quella serie molto articolata di testi che va sotto il nome di Libro di Enoc.
Ma ad Enoc accade qualcosa di ancora più straordinario: cammina con Dio. Chi cammina con Dio? Chi, per dirla ancora con Siracide, “piace” a Dio? La risposta, in apparenza semplice, si può trovare nella notte della passione di Gesù. Egli chiede al Padre di allontanare il calice, ma accetta la Sua volontà: “Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36 parr.). Gesù “cammina” con il Padre, e facendo la “Sua” volontà, accede alla risurrezione, attraverso la croce. Chi fa la volontà di Dio, cammina con Lui, e chi cammina con Dio propriamente non muore.
Al contrario la “morte” di chi non cammina con Dio non è solo morte fisica, ma mancanza di senso della propria esistenza, morte simbolica. L’esperienza del Cristo, tra l’altro, capovolge la dimensione simbolica propria dell’ebraismo sulla quale si innesta, rendendo “storica” la risurrezione, ovvero rendendo reale la continuità della vita per chi segue Dio da vicino.
Il “rapimento” di Enoc evidenzia, inoltre, per la prima volta nella Scrittura il concetto di “cambiamento di stato”, che sarà poi proprio del Risorto e dei risorti alla vita eterna, come anche Paolo avrà modo di sottolineare in diverse sue lettere. Se la morte non è l’ultima parola, chi “risorge” da un lato “non è più” per questo mondo, ma è vivo in una dimensione e condizione diversa, tanto che, almeno per Enoc e la sua tradizione, questa condizione lo renderà capace di entrare in parte nel mistero di Dio e di assumere una funzione di “collegamento” tra questo mondo e l’”oltre”.
Enoc, infine, è traduzione del nome ebraico Chanokh, che significa propriamente “iniziato”, e “dedicato”. Se fare la volontà di Dio può apparire un’azione generica, anche se la Scrittura offre ben concreti esempi, il nome che il nostro personaggio porta (e per l’ebraismo il nome ha valenza estremamente profonda) ne delinea ed esplicita i contorni: chi cammina con Dio e ne fa la volontà, diviene un iniziato, entra a poco a poco nel mistero di Dio (già lo sappiamo per Enoc stesso) e il mistero di Dio progressivamente entra in lui, e questa iniziazione altro non è che “dedicazione” di sé a Dio.
Camminare con Dio diventa quindi darsi totalmente a lui. Non a caso il nome ebraico di Enoc evoca quello della festa ebraica di Channukkah, che ricorda la nuova dedicazione del tempio di Gerusalemme in capo alle guerre maccabaiche e in seguito alla sua profanazione da parte di Antioco IV Epifane, entrambi narrati nel secondo libro dei Maccabei. Una nuova dedicazione, un nuovo inizio, una risurrezione, se volete.
Anche Enoc, in quanto “iniziato”, è colui che comincia un nuovo percorso, che culminerà con il bisnipote, Noè, il cui nome ebraico significa “colui che ha o dà riposo”. Anche costui “camminerà con Dio” e sarà protagonista di una morte, quella dell’intera umanità, a cui seguirà una nuova vita, con un evidente cambiamento di stato, sancito dall’arcobaleno, segno della prima alleanza tra Dio e l’uomo.
Né Enoc in senso letterale, dunque, né Noè in maniera simbolica muoiono. Enoc però viene prima, perché senza colui che “inizia” dedicandosi a Dio, non può esistere chi dona e vive nella pace.
Enoc è quindi in qualche modo un capostipite e riveste un ruolo profetico, sia in direzione della storia dell’umanità che della vita del Messia.
Se vi sembra complesso quanto ho cercato di dire in queste righe, pensate a questo: per chi facciamo quello che facciamo oggi? Per chi tentiamo nei nostri limiti di costruire un mondo che definiamo migliore? A chi vogliamo fornire gli strumenti per affrontare e superare le angosce legate alla morte, e da lì rinascere e “risorgere”?
Insomma, per chi “iniziamo” e dedichiamo la nostra vita e la nostra speranza? Rispondete a queste domande e comprenderete il ruolo e l’eredità di Enoc nel contesto delle prime vicende dell’uomo su questa terra, e capirete soprattutto perché è fondamentale “camminare con Dio” per non morire e per permettere all’uomo di accedere ad una vita nuova.

Roberto Bisio