La vittoria è un abbraccio

La pericope che qui accostiamo è, come la legatura di Isacco che abbiamo affrontato la volta scorsa, tra le più conosciute. Molti autori, intellettuali ed esegeti ne hanno proposto interpretazioni complesse e dense di significati anche molto distanti tra di loro. Diversi artisti in età moderna e contemporanea, spesso refrattari ad affrontare tematiche religiose, hanno trovato nella lotta di Giacobbe con l’angelo” ispirazione e spinta espressiva; ricordiamo ad esempio Delacroix, Gauguin, Redon, Moreau, Denis, Chagall, solo per citarne alcuni.
È indubbio che l’interpretazione di questo testo sia complessa e ricca.

Personalmente amo pensare che Giacobbe lotti disperatamente per sfuggire ad un abbraccio, e che la ferita che lo segnerà per sempre sia la traccia dell’amore di chi tenta con ogni mezzo di arrivare a lui. Ma andiamo al racconto, di per sé molto semplice.
Giacobbe attraversa un fiume con la sua carovana. Si ferma da solo sulla riva. È notte. Un uomo gli si avvicina e ingaggia con lui una lotta che dura fino all’alba. Alla fine dello scontro Giacobbe ha vinto ma si ritrova ferito e ha un nome nuovo: Israele.
Un particolare nel testo acquista un’importanza primaria anche se difficile da scorgere a prima vista: i nomi e in “non nomi”, delle persone e dei luoghi. Abbiamo avuto modo, di affermare, nei precedenti articoli, l’importanza dei nomi nella cultura ebraica e nella Bibbia. Il nome è l’essenza dell’uomo, lo indentifica nella sua singolarità e individualità. Ricevere e dare un nome è segno di reciproca appartenenza: chi riceve il nome appartiene a chi lo assegna, e chi assegna il nome avvia un rapporto indelebile con colui che lo riceve.
In Genesi 32,25-33, quindi, i nomi strutturano e danno senso alla vicenda, di per sé alquanto particolare. Saranno dunque loro a guidare la nostra riflessione.
Giacobbe, è il primo nome che incontriamo. Trova significato nella dinamica della sua nascita, poiché egli nel venire alla luce “afferra il calcagno” del gemello Esaù. Già all’inizio della vita, dunque, abbiamo prova della sua inclinazione alla lotta e alla sopraffazione, figlie di un’ambizione che lo porta a escogitare tranelli e inganni per ottenere ciò che vuole: la primogenitura dal fratello e la benedizione del padre Isacco.
Egli si ritrova dunque solo dopo aver attraversato un fiume.

È il momento di sottolineare l’importanza, nella Scrittura, dell’azione di attraversare l’acqua, sia essa un fiume o il mare: è il segno di un passaggio irreversibile verso una vita nuova, è l’attraversamento di una “morte” in vista di un nuovo percorso, di un nuovo viaggio.
Il fiume che Giacobbe attraversa si chiama Iabbok nome che deriva dal verbo ebraico baqaq, che significa contemporaneamente sia “rendere deserto” che “essere lussureggiante”.
La “morte” di Giacobbe, perciò, porta con sé due possibili esiti: il deserto o il giardino, potremmo dire l’inferno o il paradiso, visto che, secondo quanto affermava Anselmo d’Aosta, l’inferno è una privazione eterna della presenza di Dio, un deserto arido, quindi, piuttosto che fuoco inestinguibile, mentre il paradiso è l’ebraico pardes, il “giardino del re”, ovvero il luogo in cui il re, Dio, è presente e abita per l’eternità.

Una domanda sorge spontanea: chi decide il destino di Giacobbe verso una o l’altra direzione? La risposta è: Giacobbe stesso. Egli infatti è solo, come si è soli in tutti i momenti fondamentali della vita: nascita, scelte, morte. Chi ci sta attorno può sostenerci, consigliarci ma siamo noi, e noi soltanto i protagonisti di questi momenti. Ed è notte: io penso che qui il buio e l’oscurità stiano ad indicare l’incertezza dell’ignoto: cosa c’è oltre il fiume?

Appare allora, improvvisamente un uomo, non un angelo, il testo è chiaro; e non è un ‘adam, un uomo che simboleggia l’umanità intera, ma un ’ish, ovvero una persona concreta e individuabile nella sua singolarità. Quest’uomo lotta con Giacobbe “fino all’alba” e quando vede che non può sopraffare il patriarca, lo ferisce e chiede di essere lasciato andare.
Giacobbe vuole in cambio la benedizione (emerge qui ancora lo spirito opportunistico del “vecchio” figlio di Isacco). Ma l’uomo chiede ancora, ed è la domanda chiave dell’intera pericope: “Qual è il tuo nome?”. Ancora il nome, il senso della richiesta è evidente: chi sei? Chi sei veramente?
Ed è così che avviene il cambiamento, l’’ish afferma: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele”, dal verbo sarah, “combattere”, ed “El”, Dio; e la spiegazione è la seguente: “perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto”. L’espressione contenuta nel nuovo nome può significare certamente “combattere contro Dio”, ma anche “combattere per Dio” o “Dio combatte”.
Così inizia una trasformazione: colui che combatte contro Dio, diventa colui che combatte per Dio, grazie alla battaglia che Dio stesso ha combattuto per lui.
Dio e gli uomini: chi è dunque l’’ish che combatte con Giacobbe? È l’unico protagonista della storia a non avere un nome, ed anzi ad una domanda esplicita in questa direzione da parte del patriarca non risponde.

Questo silenzio in sé potrebbe già essere un indizio, visto che l’unico nome impronunciabile nella Scrittura è quello di Dio. Il nuovo nome di Giacobbe potrebbe inoltre confermare implicitamente l’ipotesi.
Ma proprio le parole di colui che combatte con il patriarca affermano espressamente che Giacobbe ha combattuto con Dio “e con gli uomini”. Il testo, dunque mantiene, volutamente l’ambiguità sull’identità del combattente: può essere Dio, gli uomini, ma anche Giacobbe stesso, uomo anch’egli. Il lottatore Giacobbe combatte a trecentosessanta gradi, è una lotta senza quartiere, per rimanere nella sua notte, per non decidere, per non lasciarsi cambiare.
Alla luce di quest’ultima considerazione rimane aperta ancora una domanda: come fa Giacobbe/Israele ad aver vinto, se esce ferito e malconcio, e perdipiù con l’identità cambiata dal combattimento? Credo che la risposta, seppur paradossale, sia perché ha perso, perché è ferito, perché è cambiato, in fin dei conti perché si è lasciato abbracciare, è riuscito a fidarsi di qualcuno che aveva di fronte e che lottava non per sé stesso, ma per cambiare a lui il nome e per farne un “uomo nuovo”. Penso che proprio in questa novità risieda, mi sia permesso il gioco di parole, la novità di questo testo: è la “risurrezione” di Giacobbe, che diventa il “nuovo” Israele, nome che sarà anche un popolo.
È quindi l’alba. Un fiume attraversato ha introdotto un uomo cambiato in una terra che, tra l’altro è la sua terra, il luogo dove è nato, e questa terra, dopo la notte della solitudine e della lotta, può essere un giardino.

A Giacobbe/Israele rimane ora da assegnare (è lui ora a farlo) un ultimo nome, quello al luogo in cui è avvenuto il suo rinnovamento. Lo chiama Penuel, letteralmente “la faccia di Dio”, che in ebraico diventa espressione idiomatica per “di fronte a Dio”. “Sono stato faccia a faccia con Dio e la mia vita è rimasta salva”: questa è la spiegazione che lo stesso Israele fornisce. Al netto della visione ebraica per cui “vedere Dio” implicava la morte, è significativo il fatto che il patriarca identifichi la novità di vita con l’essere davanti a Dio, la condizione della felicità eterna.
Stare alla presenza di Dio trasforma la notte della morte nel giardino della luce. Adesso infatti è giorno, Giacobbe/Israele supera Penuel, si ricongiunge alla sua gente e si prepara ad incontrare il fratello Esaù, per abbracciarlo, e per una pace nuova e definitiva.
Ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, la Scrittura ci dice che c’è un oltre, dopo la notte si trova l’alba e un giorno nuovo, e il sorgere del sole consegnerà una terra che è un giardino, se ci lasceremo abbracciare. Dipende da noi.

Roberto Bisio
Presidente
Centro Culturale San Paolo