Il racconto che viene definito “sacrificio di Isacco” o, più opportunamente, “legatura di Isacco”, è l’oggetto di questa tappa del nostro percorso attraverso la Parola.
Inutile dire che è assai conosciuto e molto si è scritto e detto a suo riguardo. Molteplici, infatti, sono i significati che nasconde e varie le angolazioni da cui può essere considerato.
Credo che mai come in questo caso i quarantanove sensi, che la cultura rabbinica attribuisce ad ogni parola della Scrittura, trovino un riscontro nella realtà del testo.
Poiché in questi contributi vi propongo riflessioni sul tema della resurrezione, cercherò di leggere il brano da un punto di vista forse non così evidente, ma che vale la pena di esaminare un po’ più in profondità: il percorso di Abramo ed Isacco in relazione alla vita umana e a ciò che l’attende dopo il “sacrificio”.
Il racconto di Genesi 22,1-19 si sviluppa attraverso la vicenda di un padre e di un figlio: Dio chiama il padre al sacrificio del figlio e il padre risponde con un “Eccomi”.
Abramo allora organizza i preparativi per il viaggio con i servi, ma giunto ai piedi del monte indicato da Dio (che ha lo stesso nome del monte su cui sorgerà il Tempio di Gerusalemme: Moriah), prosegue da solo con il figlio, dopo aver preso il necessario per il sacrificio: il fuoco e la legna, caricata su Isacco stesso. Arrivati sul luogo in cui sarebbe dovuto avvenire quanto richiesto da Dio, Abramo lega il figlio sulla legna sopra l’altare e “stende la mano” su di lui.
In questo preciso istante appare un angelo di Dio che ferma la mano di Abramo, un montone, che il patriarca vede impigliato in un cespuglio, verrà sacrificato al posto del figlio. Quindi, Dio rinnova la benedizione ad Abramo e in lui a tutti i popoli della terra.
Ecco i passaggi del racconto: chiamata, preparativi, cammino al monte, sacrificio e benedizione.
Il percorso di Abramo e Isacco riflette e simboleggia, in questa precisa scansione, il cammino della vita, in cui il fulcro centrale è la salita verso il monte che Dio indica, con un “prima” e un “dopo”, una chiamata e una benedizione.
In cima al monte una morte dovrà avere luogo ma ecco che sorprendentemente la morte, ancora una volta, non ha l’ultima parola. Ormai lo sappiamo, è questo un elemento comune a tutti i racconti che parlano di ciò che c’è “oltre”.
All’inizio della storia troviamo, lo abbiamo detto, una chiamata di Dio ad Abramo.
In realtà il testo dice che Dio “mise alla prova” Abramo, e alla parola di Dio il patriarca risponde hinneni, “Eccomi”.
Poniamoci una domanda: che significato può avere questo mettere alla prova? Difficile immaginare un Dio che saggia l’uomo per valutarne l’affidabilità, e ancor meno pensare a un Dio che tenta l’uomo: la prova con cui tutti noi siamo chiamati a confrontarci, sembra essere la pienezza con la quale siamo chiamati vivere la vita anche nei suoi aspetti più dolorosi, sfidanti e in apparenza privi di risposte, dando tutto di sé, addirittura anche un figlio, come era già accaduto nella pericope di Agar ed Ismaele.
La risposta esistenziale ed insieme pratica di Abramo alla chiamata di Dio dimostra un atteggiamento di apertura totale: Eccomi, sono a disposizione, mi affido a te. Nel corso del racconto Abramo ripeterà altre due volte la stessa risposta: al figlio, che lo chiama per chiedergli chi provvederà l’agnello per il sacrificio, e all’angelo che si rivolge a lui per fermarlo mentre ha già alzato la mano su Isacco. Possiamo dunque dire che la vita di Abramo, la sua salita al monte, è attraversata da una fiducia totale nell’agire di Dio e degli uomini, e questo sarà causa della sua, e nostra, benedizione. La sua prova è superata, ovvero la sua vita ha avuto un senso.
Dopo aver chiamato, Dio fornisce degli strumenti.
I preparativi per la salita sono i mezzi che Dio ci concede per “vivere” e per dare significato alla nostra esistenza. E insieme ai viveri e al necessario per il sacrificio sul monte, ci fornisce anche la compagnia delle persone, i servi della pericope.
Prima però aveva ripetuto l’invito già fatto in Genesi 12: “va’”, che in ebraico suona lekh lekha, letteralmente “vai verso di te”. È questo il cammino che attende Abramo e il figlio: una salita sul monte della consapevolezza, di sé e di Dio, perché in cima al monte troveranno la “verità” su loro stessi e, quindi, su Dio. Ogni chiamata di Dio è una chiamata a fare verità su noi stessi, a comprendere il nostro specifico “senso”.
Comincia così la salita verso il monte, una salita appesantita da incertezze e dubbi, a cui Isacco dà voce attraverso la sua domanda: “dov’è l’agnello?”; “Dio si provvederà l’agnello” si sente rispondere, ma il dubbio rimane, come il dolore al pensiero della morte e la paura della perdita prospettata.
Arrivati in cima, ecco che non c’è più scampo: la vittima sacrificale è l’uomo, è il figlio, siamo noi. Ma accadrà veramente?
Sappiamo dal racconto che davvero Dio si provvede da sé il materiale per il sacrificio. Dio non vuole a tal punto il sacrificio dell’uomo da arrivare a sacrificare sé stesso, nel Figlio, per lui. Dio vuole in realtà che l’uomo comprenda che è Dio a compiere il sacrificio, e il sacrificio è ricostruzione di un’armonia perduta, di un rapporto compromesso. Non illudiamoci dunque, non siamo noi a ricostruire ma è Dio a “ri-creare” ciò che era perduto, e nel ri-creare nulla va perso: l’animale sacrificato, secondo la visione biblica, non muore, ma diventa soave odore in onore di YHWH, muta cioè la sua condizione, in pratica come successe ad Enoc, in qualche modo si divinizza entrando in contatto con la luce di Dio.
Potremmo quindi dire che, in un certo senso, “risorge”.
Due appunti lessicali. Il termine ebraico per “montone”, ail, ha curiosamente anche l’accezione di “forte”, “principe”. Quindi il montone è anche “principe”, è regale, così come il crocifisso, agnello immolato, che siede alla destra del Padre dopo la risurrezione.
Va notata in questo senso anche la diversità di designazione dell’animale da sacrificare nel corso della pericope: prima per Isacco è un agnello, ora un montone: quindi, l’agnello sacrificato si trasforma in un “principe”.
Un’altra sottolineatura merita invece il verbo ebraico ra’ah, propriamente “vedere”, “farsi vedere”, ma anche “procurare” o “procurarsi”.
Viene impiegato in questo brano sia nella risposta di Abramo al figlio “Dio stesso si procurerà l’agnello”, che in conclusione, quando Abramo assegna il nome al luogo in cui è avvenuto il “finto” sacrificio: “YHWH vede”, “Sul monte YHWH si fa vedere”.
È un gioco di parole che implica una doppia idea di Dio, colui che provvede da sé al sacrificio, già lo abbiamo detto, e facendo questo si fa vedere. Il sacrificio è dunque la visione. Come non vedere in questo il Dio crocifisso del Vangelo?
Tutto è dunque compiuto ma, lo sappiamo, non è la fine. La prova superata genera la benedizione di Dio ad Abramo e attraverso di lui all’umanità intera. E cos’è la benedizione se non la grazia che oltrepassa e supera la morte, cosicché non diventa altro che la “benedizione della risurrezione”? La benedizione è Dio, ma, secondo quanto ci dice il testo anche l’uomo è benedizione per i suoi simili, se si affida al Dio che benedice.
Un’ultima domanda: la benedizione dopo il sacrificio significa che questa sarà fruibile solo nell’”oltre”?
Anche qui ci viene in soccorso la prima chiamata di Abramo in Gen 12: già all’inizio, infatti, il patriarca era stato benedetto da Dio, e gli era stato comunicato il suo statuto di benedizione per tutti i popoli e le famiglie della terra.
Dunque, noi siamo benedetti fin dal principio, e siamo destinati ad una benedizione “definitiva”, che giunge semplicemente dopo l’acquisizione, attraverso l’ascesa al monte, di una consapevolezza superiore relativa a noi stessi, al rapporto con Dio e al genere di visione che avremo di Lui (ed è questo il significato vero di “prova”).
Lo ribadiamo: è Dio che compie il sacrificio e ristabilisce l’armonia, facendosi vedere. E vedere e vivere con il Dio della pace è quello che ci attende, dopo la sua e la nostra risurrezione.
Roberto Bisio