Il corso di metodologia per catechisti è stato affidato quest’anno al Dr. Fabrizio Carletti della diocesi di Perugia, stretto collaboratore di Creativ, gruppo sorto a Reggio Emilia nel 1994, che opera nel campo dell’animazione e della formazione rivolta a varie fasce di età, per offrire risposte adeguate alle attuali esigenze educative.
Questo “network delle idee” è ormai diffuso in molte regioni italiane e anche all’estero, dove realizza corsi per catechisti, genitori, insegnanti, ma anche seminaristi e sacerdoti, per venire incontro alle molteplici richieste provenienti da chi quotidianamente si confronta col mondo giovanile.
Scopo dell’incontro è stato dunque quello di aiutare i catechisti ad acquisire uno stile e una mentalità educativa rinnovata, con la quale poter “accendere” la mente per imparare a usare e valorizzare le potenzialità di ciascuno.
Partendo dal quadro attuale che si presenta in ambito catechistico, Carletti ha constatato che l’esperienza di fede proposta ai ragazzi rischia di limitarsi alla trasmissione di nozioni. La fede è ridotta a concetto, a esortazione (il cosiddetto approccio parenetico) che non mostra un volto desiderabile di Dio. A titolo di esempio, il relatore ha ricordato che in un progetto formativo elaborato da un’equipe di catechisti egli aveva notato infatti che, partendo da brani biblici o da parabole evangeliche, si finiva quasi sempre per arrivare a una sintesi di questo tipo: “Quindi, devi fare questo; il Signore vuole che tu ti comporti così” ecc. Tutte conclusioni che inducono a vedere Dio come un giudice e non in una relazione filiale.
La fede è, invece, uno sguardo libero, autentico, appassionato su Dio, ma anche su di sè e sugli altri: è lo sguardo nuovo, quello di Gesù. Papa Francesco, in effetti, fa più volte riferimento all’importanza dello sguardo, come quando dice che “la fede appare come un cammino dello sguardo, in cui gli occhi si abituano a vedere in profondità” (Lumen Fidei, n.30).
Dunque, quello che il catechista trasmette e che nella Chiesa si comunica è “la luce nuova che nasce dall’incontro con il Dio vivo” (L.F.n.40).
Ma educare la persona vuol dire assumerla in tutta la sua complessità per attivare in lei dei comportamenti conformi alla realtà che incarna.
Tutto questo mette in gioco più livelli della persona: non solo la dimensione cognitiva, ma anche affettiva e morale. Nella catechesi, che si pone come obiettivo quello di un coinvolgimento integrale della persona, non si può prescindere dalla dimensione emotiva.
Se come catechisti non siamo chiamati a essere psicologi tuttavia è essenziale lavorare sull’educazione affettiva, ma ancor prima che su quella dei nostri destinatari, sulla propria capacità e sulla propria personale formazione.
Per poter comunicare un’emozione occorre che io stesso per primo la viva, partendo, ad esempio, dal presupposto che, più che una persona che fa qualcosa in parrocchia, sono uno che si propone molto semplicemente di diventare ciò che sono chiamato ad essere: un catechista.
I bambini apprendono le emozioni, in funzione delle emozioni che vivono, prima di tutto dalla madre e poi dagli educatori, formatori, catechisti, i quali riusciranno nell’intento, se annunceranno il vangelo, utilizzando ogni tipo di linguaggio capace di trasmettere emozioni. L’esortazione di Papa Francesco ad Assisi: “Annunciate il vangelo in tutti i modi e, se serve, anche con le parole” mette in evidenza come le parole, a volte, possano essere il linguaggio meno incisivo ed efficace, tanto più con i bambini e i giovani, abituati come sono a immagini o sensazioni forti.
La catechesi è il luogo dell’annuncio, ma soprattutto della relazione concreta, di occhi che s’incontrano. Perciò il catechista che trasmette un qualcosa di veramente vissuto, emoziona e stabilisce una relazione, perchè offre un’esperienza da condividere.
Interessante la testimonianza del relatore che ricordava di essere stato, da bambino, piuttosto vivace durante il catechismo ma composto e attento come chierichetto perchè, ha detto, “A catechismo sentivo una lezione, in chiesa sentivo una presenza”.
E dunque si evidenzia la necessità di introdurre a un incontro vero, non cerebrale, razionale, ma concreto, incarnato, per attivare un percorso di fede che non conduca semplicemente a una “fede indossata”, come un abito di cui poter disfarsi a un certo momento della vita.
È importante allora scoprire i linguaggi della catechesi e l’impatto che hanno sui ragazzi. Occorre costruire una catechesi che si componga di vari aspetti, o corde, se vogliamo paragonarla a uno strumento, ad esempio il violino, costituito appunto da quattro corde, che armonizzandosi la rendano melodiosa: sono il linguaggio narrativo autobiografico, biblico, esperienziale e liturgico-simbolico.
Educare un giovane a saper riconoscere, comprendere ed esprimere le emozioni è un passaggio molto importante perchè anche la sua scoperta della fede assuma le caratteristiche di un percorso consapevole e motivato. Il luogo entro il quale operiamo è il gruppo, che non solo non è uno strumento ma già di per sè è contenuto educativo e di fede.
Nel percorso formativo può avere un suo ruolo anche la musica, molto amata dai giovani e ad essi congeniale. La musica in sottofondo può costituire, come ha ricordato il relatore, “un’esperienza immersiva e avvolgente” che non distoglie dall’obiettivo ma può ben conciliarsi e armonizzarsi con alcuni gesti o momenti di preghiera, purché venga scelta con opportuni criteri e utilizzata con misura.
La lunga e dettagliata relazione si è arricchita di un fascicolo dato agli intervenuti e scaricabile dal sito dell’ufficio catechistico, che contiene molte proposte didattiche per educare bambini e ragazzi alla dimensione affettiva, cioè per aiutarli a scoprire e manifestare le emozioni. Un passo successivo sarà ad esempio quello di far loro riconoscere ed esprimere gli stati d’animo dei personaggi incontrati nella lettura di un episodio biblico, facilitando così il racconto e l’attualizzazione dei contenuti catechistici.