Omelia a conclusione della processione di San Giovanni Battista

Omelia pronunciata in Cattedrale al termine della processione di San Giovanni Battista
24-06-2018

Arcidiocesi di Genova

Solennità di San Giovanni Battista, 24.6.2018

OMELIA AL TERMINE DELLA PROCESSIONE

 

Cari Confratelli nell’Episcopato, nel Sacerdozio e nel Diaconato

Distinte Autorità

Cari Fratelli e Sorelle nel Signore

  1. Genova da secoli custodisce le ceneri di San Giovanni Battista, Precursore di Cristo: è un onore e un vanto, ma soprattutto una responsabilità, quella di ispirarsi a lui. La sua fedeltà a Gesù, alla verità, il suo coraggio di testimoniarla sfidando i potenti del tempo, devono essere stella polare della Chiesa e della Città. Anche per questa regione ogni anno portiamo in processione l’arca di San Giovanni, e con le sue ceneri benediciamo il mare e il porto, cuore nativo e sempre pulsante di Genova. E’ una manifestazione di popolo che si tramanda nel tempo, che i nostri padri ci hanno consegnato come un patrimonio fatto di gesti e di canti, di riti e di arte, di colori, di segni religiosi e civili, in una armonia che va ben oltre il folclore, e che dà corpo alla fede e alla storia; dove l’identità diventa volto, preghiera, festa, speranza, propositi di bene. E’ l’occasione perché non solo noi, ma Genova stessa sollevi lo sguardo oltre l’immediato, oltre i compiti e le preoccupazioni presenti, verso l’orizzonte sconfinato del mare nostro.

Siamo certi che i nostri padri, guardando l’azzurro orizzonte sconosciuto, non solo hanno pensato a lavoro e commerci, a imbarcazioni e vele, ma anche si sono sentiti sfidati e attratti per solcare con saggezza vie nuove. Non solo una ragione economica, ma anche uno slancio dell’anima, ha spinto Genova oltre se stessa diventando ciò che è. Quello slancio non si è esaurito, e tutti vogliamo che mai si spenga. E’ necessario però che i nostri cuori battano insieme e diventino il cuore, l’anima di Genova.

  1. Ma dobbiamo rimanere un popolo! La cultura occidentale vuole sciogliere l’uomo, la famiglia e la società: e ognuno – se se ne rende conto – reagisce come può! Il popolo è il compendio di ciò che nell’uomo vi è di genuino, di essenziale, di profondo. Rincorrere miti culturali che durano lo spazio di una stagione, che non hanno storia, solo perché appaiono nuovi e facili, libertari e promettenti, è come giocare d’azzardo: ci si rovina! Il nuovo deve avere ali, ma il passato deve avere gambe ben piantate: le cose vanno insieme. Quando la vita e la morte, le gioie e i dolori, i cambiamenti e la ripetizione del quotidiano acquistano un senso religioso, allora l’uomo cresce nella stabilità interiore, trova forza nel portare le responsabilità, nasce la capacità di non abbattersi nei rovesci.

Allora si vive radicati saldamente per terra senza essere materialisti, e l’anima prende le ali verso il cielo senza diventare aerea e inconcludente. Ciò vale per ognuno, ma vale altresì per una società, una Nazione, uno Stato: solo allora esiste un Popolo, se ha un’anima che cerca la verità delle cose, di sé, della tradizione, della famiglia e della vita; se non insegue farfalle sociali, economiche e etiche. Quando una cultura ha paura di Dio e vuole fare a meno di Lui – come spesso in occidente accade – allora diventa fragile e menzognera, subentra una mentalità artificiosa e malata. Invece il popolo è vicino a Dio, incarna l’uomo immediato, in cui l’unità non si è spezzata: per questo – nonostante tante miserie – il popolo mantiene l’istinto primordiale di ciò che è vero e buono, l’intuito che il mondo sensibile non è tutto, e che esiste un mondo diverso e invisibile, ma che è reale e decisivo. Quando un popolo cerca la verità che lo precede, vive oltre l’arroganza e la volontà di dominio: scopre che tutto è dono, che le cose che più contano non dipendono da lui. Scopre che tutta l’esistenza confina con Dio, e che il tempo è preludio dell’eterno. Per questo chi perde il contatto con il popolo perde il contatto col Dio vivente.

  1. A volte, viene da chiederci perché una certa ostilità verso la religione: forse per i peccati dei credenti? per errori della storia? Certamente, ma credo che la ragione più vera sia l’intuizione che quando gli uomini incontrano Cristo allora diventano un popolo; quando invece il messaggio di Cristo va perduto allora si trasformano in massa. L’economia, la finanza, l’interesse, la paura’possono creare un popolo? Possono conciliare l’uomo con se stesso? Possono rinnovare l’unità interiore del proprio io? Possono educare alla benevolenza tanto non gioire del male altrui?

‘Il cristianesimo – scriveva Benedetto Croce nel 1942 – è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto: così grande (…) che non meraviglia che sia apparsa (…) come un diretto intervento di Dio sulle cose umane. (Benedetto Croce, Articolo in ‘La critica’ del 1942: Perché non possiamo non dirci cristiani).

Queste parole ci devono far pensare: sono scritte senza complessi, con libertà.

Genova, non farti mai ammaliare da miti ingannatoti; guarda i tuoi padri, essi guardavano il cielo non solo per cogliere i venti e le rotte, ma per elevare l’anima a Gesù, alla Santa Vergine, ai nostri Santi: da quell’altezza sapevano di poter meglio vedere la vita, le loro famiglie, le loro case, l’amata Genova.

San Giovanni Battista ci benedica e ci aiuti a rimanere un popolo con un volto umile e fiero della propria storia, grato a quanti ci hanno preceduto, responsabile verso i giovani che devono guardare a noi con fiducia. Non possiamo tradirli!

Angelo Card. Bagnasco

Arcivescovo Metropolita di Genova

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