50 anni della Comunità di S. Egidio

Omelia pronunciata in Cattedrale nella S. Messa per i 50 anni della Comunità di S. Egidio
21-02-2018
Arcidiocesi di Genova
Mercoledì 21.2.2018
50° anniversario della Comunità di sant’Egidio
OMELIA
Cari Confratelli nel Sacerdozio e nel Diaconati
Sig. Ministro della Difesa
Distinte Autorità
Cari Fratelli e Sorelle di Sant’Egidio
Cinquant’anni di storia sono una prima tappa significativa della vita della Comunità: guardare alle origini e a questi decenni non è un compiacimento, ma un dovere per ringraziare il Signore e per far tesoro del bene ricevuto e donato. L’umiltà e la lode – in queste circostanze – devono essere le note dominanti per poter anche guardare al futuro, misurando i passi nella fede, nella Chiesa e nella storia.
1. Il 1968
L’origine risale al 1968, l’inizio della cosiddetta rivoluzione culturale, momento di ribaltamenti, di contestazioni strutturali, di fantasia al potere. Le carte sono state sparigliate in ogni ambiente, immaginando un futuro e inimmaginabile, e comunque diverso. Molte cose da allora sono cambiate, molte sono passate, voi siete rimasti. Quando le realtà stanno nel Signore, allora né le intemperie né gli uragani della storia possono sradicarle e portarle via. Nelle turbolenze di allora, avete guardato il volto di Gesù, come i discepoli sulla barca, e lì avete scorto il fondamento dell’essere e dell’agire, nella sua croce la stabilità in mezzo al turbinio degli eventi. A partire dal suo sguardo e dalla sua parola, che risuona nel grembo della Chiesa Madre e Maestra, avete puntato gli occhi in particolare sull’indigenza di molti, di troppi, che allora come ora, sono ai bordi della vita e invisibili alla società. La storia della Chiesa da millenni accoglie, ascolta, incoraggia e sostiene in ogni modo, dando voce all’amore di Dio per il mondo ferito. Ma la fantasia di Dio non ha limiti, e sempre ha rinvigorito forme antiche e suscitato forme nuove di carità, vicinanza, in uno spazio che – purtroppo – vediamo oggi crescere. Sembra paradossale, ma il disagio si allarga quanto più il progresso sembra crescere e dovrebbe curare mali antichi, assicurare una vita migliore per tutti.
2. ‘Beati i poveri’
Le letture ascoltate ci parlano di Giona, il profeta che invita – riluttante – alla conversione il popolo di Ninive e di noi oggi. Gesù ne parla come di un segno inviato per la salvezza, per riconoscere qualcuno ‘che è più grande di Giona’: Lui stesso. Il messaggio illumina e accompagna questo anniversario. Lasciate che parta dalle beatitudini del Vangelo che ben conosciamo. Esse sono attraversate come da un filo d’ora: ‘beati i poveri perché di essi è il Regno dei Cieli’. Questa nota dominante ci suggerisce almeno tre riflessioni.
a) Innanzitutto, ci invita ad entrare nel cuore della povertà evangelica: essa è saperci nulla senza Dio, piccoli ai nostri occhi, incapaci di amare se Dio non ci ama. Ne scaturisce l’abbandono a Lui, il lasciarci andare fra le sue braccia, l’inginocchiarci di fronte a Colui che ci è vicino ma che resta sempre più grande, oltre noi: Colui che guida la nostra vita e la storia verso il suo supremo Destino. Solo questa povertà può essere mite, giusta, pacifica, pura, e benefica.
b) Ma c’è un altro riflesso: il richiamo alla sobrietà. La sobrietà non è da intendere come essere privati ma come privarci. Si tratta di scegliere uno stile di essenzialità, una demarcazione interiore, un criterio che necessariamente si rapporta con il tempo e il luogo dove si vive, ma che – comunque – è come una luce verde per le nostre scelte, una luce che sempre guardiamo con fiducia e onestà.
c) Infine, la beatitudine ci provoca a pensare diversamente da ciò che ci viene imposto di pensare. Se la beatitudine non tocca questa profondità interiore resta un vestito esterno, da misurare secondo le convenienze e da aggiustare, ma non diventa la nostra pelle. In questo senso, il povero del Vangelo è di natura sua un dissidente rispetto alla cultura dominante che ci convince a spendere soldi che non abbiamo, per procurarci cose che non ci servono, per fare un’impressione che non durerà su gente a cui non importa nulla di noi. La cultura diffusa ha creato nei suoi utenti bisogni immaginari che servono a impedire l’attenzione verso i bisogni autentici.
3. Il primato dell’amore di Cristo
Voi, cari Amici, insieme a tanti altri gruppi, comunità associazioni, sapete che cosa è la solidarietà vera e in quale contesto si colloca. Deve far pensare che – come affermano riconosciuti osservatori – il sogno di un’era in cui si credeva che qualche goccia di ricchezza – filtrando verso il basso – si traducesse in benessere di massa, è tramontato. E’ documentato che – in un tempo di mercato guidato dal primato della produzione e del profitto più alto possibile, in un regime di assoluta concorrenza – è cresciuta una cerchia molto ristretta di super ricchezza e un mare di povertà e di disagio deluso e risentito. Se guardiamo il mondo occidentale, i grandi mali di ogni società – miseria, ignoranza, lavoro, malattia – essi non sono ancora stati superati. Alcuni sono riapparsi o addirittura cresciuti.
Questa situazione deve essere ascoltata da noi come Ninive ascoltò la profezia di Giona. Ascoltare per adeguare sempre meglio la nostra presenza e azione. Inoltre, là dove sembrano essere risolti questi mali, dilaga la solitudine e la depressione: e questo ci ricorda che il male oscuro della solitudine è insito tanto nella privazione quanto nel suo contrario, nel benessere, e che – pertanto – il pane senza speranza non sfama l’uomo perché non dà dignità vera, anche se soddisfa bisogni immediati veri. Il pane senza compagnia e amore non guarisce le ferite umane. Ma l’amore non è oggetto di nessuna legge, ha radice nel cuore dell’uomo che rispecchia il cuore di Cristo, il grande Samaritano e Salvatore del mondo. Dimenticare di essere inviati da Gesù nel mondo delle povertà; di essere dei portatori d’acqua, l’acqua della fede, della testimonianza cristiana e del pane, significa crederci protagonisti del bene: attivi ma sterili.
4. Legge e educazione
Siamo così giunti ad una sfida che – con tempi lunghi ma irrinunciabili – non possiamo eludere, e voi lo sapete. E’ la responsabilità educativa. Una visione manageriale-produttiva che non coltivi insieme la cultura e la sensibilità sociale non sarebbe un Paese né evoluto né sociale, ma solo un imprenditore. L’Italia, grazie alla sua storia di Vangelo e di fede, è nata e cresciuta in questo orizzonte umanistico perché illuminato e redento. Non è possibile qui sviluppare questo intrinseco legame, nessuno però può negare il fatto cristiano, che da duemila anni ispira civiltà e cultura all’altezza dell’umanità universale.
Angelo Card. Bagnasco
Arcivescovo Metropolita di Genova
condividi su