Cari Fratelli e Sorelle nel Signore
Ricorre oggi il XXV anniversario della morte del Cardinale Giuseppe Siri, Arcivescovo di Genova dal 1946 al 1987. Ringrazio Mons. Mario Grone, Preside del Capitolo Metropolitano, che ci ha donato la sua commovente testimonianza come ultimo Segretario del Presule, e che lo ha accompagnato filialmente nella malattia fino al suo ‘dies natalis’, il due maggio del 1989.
Sono qui presenti Vescovi e Sacerdoti ordinati da Lui, e che da lui si sono sentiti amati. I suoi preti li ha sostenuti comunque e in ogni modo: tutti noi lo sappiamo e gli siamo riconoscenti. Ogni uomo è sempre più di se stesso, è intreccio di quanti ha incontrato, storie incrociate, situazioni e luoghi vissuti. Se la persona è relazione, le relazioni si hanno con gli altri e con altro, e quindi ce le portiamo dentro non solo come ricordo, ma come impasto della nostra umanità.
Alla affettuosa evocazione che abbiamo ascoltato, vorrei aggiungere due considerazioni.
1. Innanzitutto il suo testamento. Esso è – possiamo dire – la sintesi della sua vita e del suo pensiero, il distillato di ciò che dimorava nel segreto del suo cuore, e che ha ispirato la sua vita di credente e di Vescovo: ‘vi lascio per entrare nella vita eterna. Vi attendo tutti, perché ho la umile speranza che il Signore mi accolga con sé’. Entriamo subito nell’orizzonte nel quale il Cardinale Siri si è mosso; l’orizzonte verso il quale il suo sguardo era costantemente diretto, uno sguardo di speranza verso Cristo e la sua misericordia fedele e accogliente.
Cari Amici, quando l’anima è puntata su questo orizzonte, allora si diventa più essenziali, più veri, ed è possibile dire, senza retorica e finzioni: ‘Ora vedo e dico a voi: niente vale più dell’amare il Signore e i fratelli per amor suo, dimenticare sé e servire in Dio tutti gli altri. Allora gli orpelli cadono, i sogni di gloria sbiadiscono, le illusioni si rivelano ombre, ogni potere perde smalto. Si vive nella luce: Dio e il prossimo da amare e da servire senza pretese. E la Vergine e i Santi appaiono come i più sicuri compagni di viaggio. Ecco dove nasce la ‘felicità’ confessata come un ritornello, un cantus firmus, che introduce i singoli capoversi del testamento: felice per il dono del Sacerdozio, di avere servito il Signore e la sua Chiesa, il Sommo Pontefice; di avere avuto i suoi genitori e i suoi Superiori a cominciare dal suo Parroco. Le spine furono molte e non piccole, le dialettiche genovesi e romane non poche, ma la felicità dell’anima non venne meno perché radicata in Dio. Cose che allora non erano comprese, negli anni si sono chiarite. Non sempre la realtà appare, specialmente quando si è riservati e discreti! Per questo è giusto e onesto non affidarsi ai luoghi comuni e ai sofismi ideologici.
2. La seconda considerazione nasce da un’immagine che non dimenticherò mai: la folla che ha vegliato la sua salma in questa cattedrale. Sono sfilati i grandi della Città e della Nazione, ma coloro che lo hanno circondato per abbracciarlo, e che sembravano non voler staccarsi, era il popolo, la gente semplice e spesso povera che egli aveva nascostamente beneficato. I vicoli, specie quelli qui attorno, lo potrebbero dire! Pensando all’immediato dopoguerra, si parlava di lui come ‘il Vescovo delle minestre’; nel seguito degli anni, si poteva dire di lui ‘il Vescovo delle fabbriche’, del lavoro, degli operai. Con coraggio e umiltà, ha affrontato ogni situazione difficile e – quando non vi erano muri di pregiudizio – ha sempre sfondato. Non era la cultura o l’intelligenza la sua arma, ma l’umanità che sapeva trovare parole dirette e concrete per entrare nella cuore della gente, spesso indurita da un lavoro difficile e pesante. E, piano piano, i lavoratori – loro ! – l’hanno capito: l’Arcivescovo era accanto, si interessava della loro vita non per moda o per finta, si interessava dei loro problemi e cercava di intervenire da Pastore. Specialmente nei momenti intricati della storia di Genova – e non sono stati pochi! – nei diversi punti caldi, ha favorito soluzioni, suggerito strade, prestato mediazioni. Con rispetto sempre, senza clamori, ma con decisa determinazione quando vedeva che erano a rischio migliaia di posti di lavoro, e si rischiava il lastrico per migliaia di famiglie. Allora, diventava capace di pastorale ‘accanimento’ con chi di dovere, e non mollava la presa. Era in gioco il suo popolo, i lavoratori, la sua Città. Sì, il Cardinale Siri è stato Pastore e Presidio di Genova, e Genova non deve dimenticare. Il rapporto virtuoso della Chiesa diocesana con la Città è stato intessuto principalmente da lui, nei suoi quarantun anni di Episcopato. Oggi, nelle mie frequenti visite nei luoghi di lavoro – a tutti i livelli – il ricordo di lui, diretto o per sentito raccontare, è diffuso e grato.
È per questo che quella folla silenziosa, fatta di uomini con le loro tute da lavoro, in piedi con le braccia conserte, è stampata nella mia memoria, ma ancor più nel mio cuore. Sentivano che quell’uomo, con il suo stile riservato e timido, era stato per loro padre prima ancora che pastore. Ed essi non si erano fermati a ciò che poteva apparire, ma ne aveva sentito il cuore, ne avevano intuito l’ umanità. Per questo sono rimasti lì fin che han potuto. Durante il funerale, forse sono rimasti fuori perché i ‘grandi’ erano dentro. Ma loro cerano comunque: forse – come nei giorni prima – erano immobili, rigidi, con lo sguardo basso, per dirgli così il loro grazie, per manifestargli con dignità -come sa fare la povera gente – il loro affetto.
Anche noi, questa sera, a distanza di 25 anni dalla morte, siamo qui per continuare quella presenza, e manifestare gli stessi sentimenti arricchiti dalla fervente preghiera.