Omelia in occasione dell’VIII anniversario della morte di Mons. Luigi Giussani

21-02-2013
Genova, chiesa di S.Marta,
21 febbraio 2013
Carissimi confratelli nel sacerdozio, carissimi amici di Comunione e Liberazione,

sono lieto di essere qui anche quest’anno per celebrare la divina Eucarestia e ringraziare il Signore per il dono di don Giussani e della Fraternità, anniversari importanti perché non sono solamente un ricordo nostalgico, ma uno sguardo vivo, cordiale e convinto alle nostre origini.

La celebrazione di quest’anno è avvolta da una duplice luce, quella dell’Anno della Fede e quella dell’imminente conclusione del pontificato di Papa Benedetto XVI. Non possiamo negare un’ombra, quasi un velo di rincrescimento per questo momento, ma anche grandissima ammirazione, riconoscenza e affetto per Papa Benedetto XVI, per questi otto anni di pontificato che hanno segnato in profondità la vita della Chiesa e del mondo.
Al primo momento di stupore è seguito un grande abbraccio che la Chiesa intera e l’umanità hanno teso verso Papa Benedetto XVI, come per dire che il Papa è entrato nel cuore di tanti, perché la sua paternità, la sua tenerezza, unita alla luce della sua parola, hanno toccato la nostra vita.

Una prima parola dobbiamo dirla innanzitutto sulla fede. Don Giussani è stato un uomo di profonda, radicale fede e l’ha vissuta, secondo un linguaggio che voi ben conoscete, come un incontro.
Si incontra una persona, non si incontra un libro o un’idea, un sistema di valori, un’etica di comportamento. Questo termine esprime la vera natura della fede cristiana: incontrare Dio che ci viene incontro attraverso la persona di Cristo. Il Santo Padre ha dichiarato fin dall’inizio del suo ministero che la questione della fede è la questione centrale e decisiva, e ci ha condotti all’Anno della Fede. Egli sottolinea che la fede è decidere di lasciarsi amare da Cristo, è arrendersi all’amore di Dio. Perché se Dio è amore, come ci dice la sacra Bibbia, allora incontrare il Dio dell’amore è arrendersi all’amore di Dio.
Vorrei mettere in evidenza un aspetto, che è intrinseco e non si può eliminare, ma che potrebbe forse generare qualche difficoltà. Quando parliamo dell’amore donato, dell’essere amato, diciamo una cosa che tutto il mondo desidera. Chi non desidera di essere amato, di essere accolto dalla cura, dall’affetto, dall’attenzione di qualcuno: di avvertire che la propria presenza è importante agli occhi altrui? Chi non desidera questo? È un dato intrinseco, che va ben al di là della cultura, delle stagioni della vita, della storia e della psicologia di ciascuno, perché appartiene alla natura dell’uomo, al suo essere, ed è pertanto insostituibile. Sant’Agostino ha indicato questa condizione propria dell’uomo con l’espressione di cor inquietum: un cuore inquieto, una nostalgia permanente e implacabile di infinito, un desiderio del tutto, mentre l’uomo vive nel particolare, nei frammenti.
Questa nostalgia è come una ferita che Dio ha impresso nelle nostre carni proprio per ricordare a ciascuno di noi da dove veniamo e dove andiamo. E’ una santa inquietudine che nessun stordimento e nessun rumore può soffocare, anche se può certamente attutire. Prima o poi essa si risveglia, riemerge dal fondo del nostro cuore e ci rimembra il cielo.

Ma se l’esperienza dell’amore è desiderio proprio di ciascuno, dobbiamo anche ricordare che l’essere amati è estremamente serio ed impegnativo, perché implica un esodo, un superamento, l’uscire dal perimetro angusto dell’io e andare verso il tu dell’altro, in una unione che non è confusione di persone ma che è ritrovarsi in una realtà più ampia e più ricca: è il noi della famiglia, il noi dell’amicizia, il noi della Chiesa, il noi di Dio. Siamo disposti a giocarci dentro questa avventura dell’amore e della fede?
Don Giussani ha amato tanto la Chiesa; i suoi scritti, i suoi esercizi spirituali, la sua vita, la sua amicizia con Giovanni Paolo II ne sono vivide testimonianze.
Come possiamo amare noi la Chiesa? Come possiamo esprimere la nostra appartenenza alla Chiesa e come possiamo contribuire alla bellezza del suo volto? È ancora Papa Benedetto XVI che ci guida nell’amore alla Chiesa, nell’appartenenza radicale, non emotiva ma sostanziale al Corpo di Cristo e ci indica la via: La conversione. La conversione del cuore, l’arrenderci all’amore di Dio è – possiamo dire – il motivo dominante, il cantus firmus, che ha declinato e tradotto in mille forme dall’inizio del suo pontificato, come richiamo alla Chiesa intera e al mondo moderno. Perché per annunciare Cristo è necessario essere di Cristo; per annunciare la gioia, è necessario vivere la gioia della fede, non la fede come un peso; per annunciare il Vangelo è necessario essere uomini nuovi, creature nuove, per convincere il mondo della novità di Cristo.
Ma siamo noi su questo cammino? Siamo decisi nella conversione interiore di noi stessi – del nostro modo di pensare, amare e agire – prima che delle cose e delle strutture? Rinnovamento di noi, non degli altri, di ciascuno di noi! Solo così ci può essere il rinnovamento della Chiesa, del popolo di Dio. Siamo tutti, cari amici, chiamati in causa seriamente. Il mondo moderno – con la mole, la complessità e la gravità delle sfide che ci propone, anzi ci impone – richiede da ciascuno di noi niente di meno che la santità della vita.
Certo, abbiamo bisogno di tradurre in cultura i valori del Vangelo; c’è bisogno di una fede pensata, di una rinnovata capacità argomentativa, ma sarebbe un grave errore ritenere di andare verso il mondo moderno solo con la simpatia di Dio e la fraternità che ne consegue, con l’ardore dell’evangelizzatore, se non fossimo anche seriamente impegnati, personalmente e insieme, nel rinnovamento interiore, nella riforma delle nostre anime, nel primato di Dio, non del nostro io.

Che il Signore ci doni, in questo momento della storia, un supplemento di grazia, una nuova Pentecoste! La vogliamo invocare innanzitutto per Papa Benedetto XVI, per accompagnarlo in questi ultimi giorni di pontificato e poi per il prossimo Conclave e il futuro Pontefice.

Angelo Card. Bagnasco
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