«Chiesa di Genova, prendi il largo»

Percorso pastorale diocesano per l'anno 2001/2002

Introduzione

L’ONDA LUNGA DEL GIUBILEO

 «La grazia del Signore Gesù Cristo,

l’amore di Dio

e la comunione dello Spirito Santo

siano con tutti voi» (2 Corinzi 13, 13).

È con queste parole dell’apostolo Paolo che rivolgo a ciascuno di voi e alle vostre comunità il mio cordiale saluto e il mio invito fiducioso a riprendere insieme, con l’amore tenerissimo e forte della Santa Trinità, il cammino spirituale e pastorale per il nuovo anno 2001-2002.

Riprendiamo insieme il cammino

  1. In questo nostro cammino, ci sentiamo preceduti e sostenuti dal Grande Giubileo del 2000, che ha riversato un vero fiume di grazia sul Popolo di Dio e sull’umanità, e dalla lettera Novo millennio ineunte (All’inizio del nuovo millennio) con la quale il Santo Padre ha invitato l’intera Chiesa a entrare con vigorosa speranza in questa nuova era, tenendo fisso lo sguardo su Gesù Cristo e annunciando e testimoniando la “lieta notizia” di lui, vero Signore della storia e unico Salvatore del mondo.

Ci orientano anche le riflessioni e le indicazioni pastorali per il prossimo decennio che i Vescovi Italiani propongono alle nostre Chiese locali con il documento Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia.

Ci accompagnano, infine, i frutti dell’itinerario compiuto dalla nostra Chiesa di Genova in preparazione al Convegno diocesano di progettazione pastorale su “La presenza missionaria dei cristiani negli ambienti di vita sociale” del 18-19 maggio di quest’anno. In particolare, i lavori del Convegno, mentre testimoniano in non pochi cristiani la coscienza viva e la gioia di appartenere alla Chiesa e di voler condividere le fatiche e le speranze della sua missione evangelizzatrice, mi offrono spunti interessanti e utili per esercitare quel ministero di comunione e di promozione che è proprio del Vescovo nella guida della comunità cristiana.

E ora, con il conforto della preghiera, dei diversi consigli ricevuti, della meditazione, sempre in ascolto di ciò che lo Spirito dice alla Chiesa (cfr. Apocalisse 2, 7) e nel segno della speranza e della gioia, in risposta al Santo Padre che chiede di tradurre il programma del Giubileo in orientamenti pastorali adatti alle condizioni di ciascuna comunità (cfr. Novo millennio ineunte, n. 29), posso proporre alle comunità cristiane della nostra Chiesa  di Genova alcuni orientamenti per il percorso pastorale diocesano del prossimo anno.

Li propongo con questa lettera, rivolgendo a tutti voi le pressanti raccomandazioni dell’apostolo Paolo: «… rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Filippesi 2, 2-5).

Senza dimenticare che, mentre mi rivolgo alla comunità cristiana di Genova sono, certo, maestro in ciò che prospetto per il cammino futuro. Ma, nello stesso tempo, di quanto vado dicendo sono anche discepolo; come tutti chiamato a rispondere con generosa radicalità a quanto lo Spirito suggerisce alla nostra amata Chiesa.

Il Giubileo, punto di partenza e di riferimento     

  1. Il nostro percorso pastorale parte dal Giubileo e ad esso fa continuo riferimento.

Su questa “centralità giubilare” insiste in una maniera particolarmente appassionata il Papa. All’inizio del terzo millennio, egli sollecita la Chiesa a “prendere il largo”, accogliendo il comando di Gesù rivolto a Pietro dopo una notte insonne e “fallimentare” per la pesca e dando la medesima risposta fiduciosa del futuro apostolo: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» (Luca 5, 5).

L’invito del Papa è anche per la nostra Chiesa di Genova, per tutti noi e per ciascuno di noi. Siamo dunque chiamati ad accogliere il comando di Gesù, passando, per così dire, dall'”Alzati e cammina” al “Prendi il largo”.

Non dimentichiamolo mai: il comando di Gesù non è solo un forte “appello” alla nostra libertà, che deve sentirsi massimamente responsabilizzata, ma è anche e innanzitutto un grande “dono”. E’ un comandamento pieno di grazia e di forza spirituale. Nessuna paura, allora, per la nostra pochezza o infedeltà e per le difficoltà che l’avventura proposta ci può far incontrare. L’animo, invece, sia colmo di fiducia, di serenità, di gioia e di entusiasmo per il destino che ci attende. Navighiamo nel mare della storia verso un porto felice – l’incontro con Dio -, seguendo una rotta sicura: Cristo, che è sempre con noi!

In particolare, nella stagione che stiamo vivendo, il comando di Gesù “prendi il largo” è carico di quella straordinaria grazia che alla Chiesa e all’umanità la misericordia di Dio ha offerto con il Grande Giubileo del 2000. Così sotto l’influsso della grazia giubilare, che come onda benefica continua a raggiungerci, la Chiesa accoglie il comando del suo Signore: «Dopo aver abbondantemente attinto alle sorgenti della misericordia divina durante l’Anno Santo – così il Papa si rivolgeva ai primi Cardinali creati nel nuovo millennio -, la mistica nave della Chiesa s’accinge a ‘prendere nuovamente il largo’ per portare nel mondo il messaggio della salvezza. Insieme vogliamo scioglierne le vele al vento dello Spirito, scrutando i segni dei tempi e interpretandoli alla luce del Vangelo per rispondere ‘ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche'(Gaudium et spes, 4)» (21 febbraio 2001).

Per questo, il Giubileo sarà punto irrinunciabile di partenza e di riferimento nel nostro cammino spirituale e pastorale. Non può essere diversamente; il Giubileo – come dice il Papa nella sua lettera Novo millennio ineunte – non è solo memoria del passato, ma anche profezia dell’avvenire: «Bisogna ora far tesoro della grazia ricevuta, traducendola in fervore di propositi e concrete linee operative. Un compito al quale desidero invitare tutte le Chiese locali… E’ ora dunque che ciascuna Chiesa, riflettendo su ciò che lo Spirito ha detto al Popolo di Dio in questo speciale anno di grazia… compia una verifica del suo fervore e recuperi nuovo slancio per il suo impegno spirituale e pastorale» (n. 3).

Il Giubileo è Gesù Cristo!

  1. Diciamo ancora una volta che il “cuore vivo” del Giubileo è Gesù Cristo stesso, il Figlio di Dio fatto uomo, crocifisso risorto e veniente, unico salvatore del mondo. E Gesù Cristo è “tutto” per la sua Chiesa: è la sua ragion d’essere e di operare, il suo soffio di vita, la sua forza e consolazione, la sua beatitudine! Per questo, solo in Cristo la Chiesa deve quotidianamente rinnovare la sua limpida fede e il suo amore intenso, facendo propria la confessione di Pietro: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente» (Matteo 16, 16).

Ne deriva una fondamentale convinzione che deve innervare e far vibrare il nostro percorso pastorale, se vogliamo anche noi oggi rispondere alla domanda rivolta a Pietro a Gerusalemme, subito dopo il suo discorso di Pentecoste: “Che cosa dobbiamo fare? (Atti 2, 37). Il Papa esprime questa convinzione con termini semplicissimi e di rara incisività, ricordando che le grandi sfide del nostro tempo si possono affrontare e sciogliere solo con il ricorso, non certo a una “formula magica”, ma all’unica Persona che dà certezza: Cristo Gesù. «No, non una formula ci salverà, ma una Persona, e la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi! Non si tratta, allora, di inventare un ‘nuovo programma’. Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste… Questo programma di sempre è il nostro per il terzo millennio» (n. 29).

  1. Ne segue che la “contemplazione” di Cristo è il fondamento della programmazione spirituale e pastorale della Chiesa, è la radice viva e la forza necessaria per essere autentici discepoli e per condividere la missione di salvezza ch’egli – l’Inviato del Padre – affida alla Chiesa sua Sposa e in essa a ciascuno di noi. E’ ancora il Papa a scrivere: «Il Figlio di Dio, che si è incarnato duemila anni or sono per amore dell’uomo, compie anche oggi la sua opera: dobbiamo avere occhi penetranti per vederla, e soprattutto un cuore grande per diventarne noi stessi strumenti… Ora il Cristo contemplato e amato ci invita ancora una volta a metterci in cammino: ‘Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni…’ (Matteo 28, 19)» (n. 58).

Sì, dalla contemplazione alla missione!

Proprio questa “missionarietà”, che nasce dalla contemplazione, è l’oggetto specifico del nostro comune percorso pastorale  per l’anno 2001-2002. La presente lettera intende illustrarla

— nelle sue ragioni,

— nei suoi ambiti,

— nelle sue esigenze di formazione.

Parte prima

 E  DISSE  LORO : ANDATE…

Non c’è fede senza missionarietà

Se Gesù Cristo è il cuore vivo del Giubileo e se la confessione di fede in lui ne è il contenuto centrale, l’orizzonte nel quale i credenti sono situati e devono muoversi è quello della missionarietà, ossia della comunicazione agli altri della fede accolta. Come scriveva il Papa nella sua enciclica Redemptoris missio: «La fede si rafforza donandola!…La missione è un problema di fede, è l’indice esatto della nostra fede in Cristo e nel suo amore per noi» (nn. 2 e 11). E prima ancora Paolo VI: «E’ impensabile che un uomo abbia accolto la Parola e si sia dato al Regno, senza diventare uno che a sua volta testimonia e annunzia» (Esortazione Evangelii nutiandi, n. 24).

 

Vogliamo vedere Gesù: un’esigenza universale e insopprimibile

 

  1. Ciascuno di noi, in quanto crede in Gesù Cristo, deve spiritualmente mettersi nei panni dell’apostolo Filippo. A lui, un giorno, si rivolgono alcuni Greci, venuti a Gerusalemme per il pellegrinaggio della Pasqua. E gli fanno una richiesta, che lo lascia sorpreso: «Vogliamo vedere Gesù» (Giovanni 12, 21).

Nella sua lettera Novo millennio ineunte il Papa così commenta: «Come quei pellegrini di duemila anni fa, gli uomini del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai credenti di oggi non solo di ‘parlare’ di Cristo, ma in certo senso di farlo loro ‘vedere’». E conclude con una domanda che ci tocca da vicino, nella nostra responsabilità di membri della Chiesa: «E non è forse compito della Chiesa riflettere la luce di Cristo in ogni epoca della storia, farne risplendere il volto anche davanti alle generazioni del nuovo millennio?» (n. 16).

Ciascuno di noi, nel proprio ambiente quotidiano di vita, incontra persone che,  sia pure nelle forme più diverse e talvolta impensate, gli pongono la stessa richiesta di quei “greci”: «Vogliamo vedere Gesù”. Ogni uomo, infatti, lo sappia o no, lo voglia o no, ha assoluto bisogno di Cristo, non può vivere senza Cristo!

Qui, in verità, sta la grande urgenza spirituale della nostra epoca: anche se si è fatta indifferente, pagana e ostile a Dio e a Gesù Cristo, la nostra società non può sradicare e cancellare quell’anelito religioso che Dio Creatore e Padre ha impresso nel cuore di ogni uomo. Proprio a questa società i credenti devono offrire, con la vita e non solo con la parola, la loro limpida e convinta professione di fede. Tu, o Cristo, ci sei necessario!

 

  1. Ma per poter far vedere Gesù occorre, come condizione indispensabile e irrinunciabile, che la Chiesa e noi per primi lo vediamo. Solo se visto da noi, può essere da noi fatto vedere agli altri.

Di qui l’eredità che il Giubileo ci consegna: «Se volessimo ricondurre al nucleo essenziale la grande eredità che essa (l’esperienza giubilare) ci consegna, non esiterei ad individuarlo nella contemplazione del volto di Cristo: lui considerato nei suoi lineamenti storici e nel suo mistero, accolto nella sua molteplice presenza nella Chiesa e nel mondo, confessato come senso della storia e luce del nostro cammino» (n. 15).  

Sulla assoluta e prioritaria necessità della contemplazione del volto di Cristo ci soffermeremo più avanti, trattando della formazione alla missionarietà. Solo questa contemplazione può generare e sostenere sia la spiritualità del cristiano – ossia la santità, che comporta la grazia di Dio, l’ascolto della sua parola, la preghiera, la celebrazione dei sacramenti e la “vita nello Spirito” o vita secondo carità -, sia la missionarietà del cristiano nei suoi contenuti di annuncio, di testimonianza e di dialogo.

Tutti missionari: perché?          

  1. Il cammino verso il Convegno diocesano di progettazione pastorale su “La presenza missionaria dei cristiani negli ambienti di vita sociale” (Genova 18-19 maggio 2001), come pure lo svolgimento dei lavori del Convegno hanno fatto emergere la necessità di dedicare ulteriore tempo per approfondire e per diffondere le “ragioni” che mostrano la “missionarietà” come dato essenziale, costitutivo e ineliminabile della fede cristiana.

Solo se queste ragioni diventeranno “convinzioni” precise e forti per ciascuno di noi sarà possibile giungere ad una vera e propria “conversione” culturale e pastorale, di cui ha grande bisogno anche la nostra Chiesa di Genova, per stare in ascolto di ciò che lo Spirito le dice (cfr. Apocalisse 2, 7. 11. 17) e per discernere i “segni dei tempi” (cfr. Gaudium et spes, nn. 4, 11, 44) in ordine ad una presenza autenticamente evangelica nel mondo d’oggi.

Ma quali sono le “ragioni” della missionarietà propria della fede cristiana? E chi e come deve sollecitare questa urgente “conversione” culturale e pastorale?

  1. Rimandando, per un più ampio approfondimento, al sussidio diocesano 2001 “E disse loro: andate…” (pp. 9-23), ci limitiamo qui ad una sintesi, ricordando anzitutto le ragioni fondamentali. Queste si fondano nel mandato missionario di Gesù Cristo: «Andate in tutto il mondo…» (Marco 16, 15). Più profondamente, esse si trovano nell’essere stesso del cristiano, quale viene “creato” dal Battesimo, dalla Cresima e dagli altri Sacramenti e la cui intima fisionomia viene delineata dal Vangelo come “luce, sale, lievito, fuoco, città posta sul monte”, e nel dinamismo di fede e di carità che lo Spirito Santo suscita, corrobora e conduce a perfezione nel “cuore nuovo” del credente.

Queste sono le ragioni “radicali”, perché sono incise nell’essere stesso del credente, e “permanenti”, perché valgono e urgono sempre, in ogni tempo e in ogni spazio: il cristiano o è missionario o non è!

L’annuncio cristiano (nella liturgia e nella predicazione), la catechesi e la formazione morale e spirituale, la meditazione e l’approfondimento personale devono ritornare con forza e con entusiasmo su queste ragioni per far nascere e crescere la coscienza della bellezza e della gravità dell’impegno missionario proprio di ogni cristiano. Emerge qui, immediatamente, un contenuto importante del ministero e dell’impegno formativo dei sacerdoti e dei diaconi, delle persone di vita consacrata, degli educatori cristiani e degli operatori pastorali. La loro “passione educativa” è identica a quella dell’apostolo Pietro che ai primi cristiani rivolgeva il monito: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pietro 3, 15).

  1. Ma ci sono anche altre ragioni, che derivano dalla situazione storica in cui, in questo nostro tempo, versano la società e la stessa Chiesa. Dobbiamo, senza pregiudizi e senza nostalgie, guardare con un realismo disincantato – non certo con un allarmismo o un pessimismo ingiustificati, e neppure con un’ingenuità o una superficialità incoscienti e inaccettabili – la concreta situazione religiosa e di fede delle nostre comunità cristiane e dei nostri ambienti di vita. Al di là dei riferimenti generali o addirittura universali, sono le situazioni di fede presente o assente più vicine a noi – dentro la nostra Città e i nostri paesi, dentro il nostro vicariato e la nostra parrocchia, dentro gli ambienti della nostra vita professionale e sociale – che dobbiamo conoscere con più precisione per poter dare risposte non superate ma attuali, veramente proporzionate e incisive mediante il nostro rinnovato impegno di fede cristiana e di missionarietà.

Per una lettura del campo ecclesiale e sociale, nel quale noi stessi ci troviamo, ci può essere di aiuto il quadro tracciato da Giovanni Paolo II al termine del Concistoro straordinario, il 24 maggio 2001.

«La Chiesa si trova oggi ad affrontare sfide enormi, che mettono alla prova la fiducia e l’entusiasmo degli annunciatori. E non si tratta solo di problemi ‘quantitativi’, dovuti al fatto che i cristiani rappresentano una minoranza, mentre il processo di secolarizzazione continua a erodere la tradizione cristiana anche di Paesi di antica evangelizzazione.

Problemi ancor più gravi derivano da un cambiamento generale dell’orizzonte culturale, dominato dal primato delle scienze sperimentali ispirate ai criteri dell’epistemologia scientifica (ossia dei metodi di conoscenza e di interpretazione della realtà propri di queste scienze che si basano sui dati dell’esperienza).

Anche quando si mostra sensibile alla dimensione religiosa e sembra anzi riscoprirla, il mondo moderno accetta al massimo l’immagine di Dio creatore, mentre trova difficile accogliere – come capitò agli uditori di Paolo all’areopago di Atene (cfr. Atti 17, 32-34) – lo ‘scandalum crucis’ (cfr. 1 Corinzi 1, 23), lo ‘scandalo’ di un Dio che per amore entra nella nostra storia e si fa uomo, morendo e risorgendo per noi…».

«Problemi ulteriori derivano dal fenomeno della globalizzazione, che se offre il vantaggio di avvicinare i popoli e le culture, rendendo più accessibili a ciascuno innumerevoli messaggi, non facilita tuttavia il discernimento e una sintesi matura, favorendo un atteggiamento relativistico che rende più difficile accettare Cristo come ‘via, verità e vita’ (Giovanni 14, 6) per ogni uomo.

E che dire poi di quanto va emergendo nell’ambito degli interrogativi morali? Mai come oggi, soprattutto sul piano dei grandi temi della bioetica, oltre che su quelli della giustizia sociale, dell’istituzione familiare, della vita coniugale, l’umanità è interpellata da problemi formidabili, che mettono in questione il suo stesso destino».

Come già per le ragioni “radicali e permanenti” della missionarietà abbiamo rilevato l’urgenza di una formazione alla fede in Cristo, così ora, per le ragioni “storiche e culturali”, appare evidente la necessità che i credenti sappiano “misurare” la loro fede con la cultura (o le culture) in atto, maturando – come diremo più avanti – una fede “pensata”.

 

  1. Dobbiamo, dunque, prendere coscienza dei profondi ed estesi cambiamenti, cui vanno soggetti la cultura e il costume con pesanti conseguenze sulla fede e sulla vita dei cristiani. Perché non dirlo senza paura, con onestà? Sì, c’è tanto paganesimo anche da noi!

Nello stesso tempo la nostra coscienza non può mai dimenticare un fatto storico fondamentale:  la presenza operante di Cristo e del suo Spirito che instancabilmente fa crescere nel terreno della storia, anche nelle sue stagioni più complesse e travagliate, il buon seme, ossia testimonianze coraggiose di fede, esperienze meravigliose di santità e germi di sicura speranza. Chi ha il dono di scendere in profondità e di scoprire le “tracce” del passaggio di Dio, può dire che anche nella nostra Chiesa e nel nostro territorio di Genova il Signore ci offre tante consolazioni, perché continua a far maturare segni e frutti di bene e ad aprirci nuove e più promettenti opportunità di evangelizzazione.

Non c’è dubbio: questo è lo sguardo del Papa, come dimostra l’invito che ci rivolge nella lettera Novo millennio ineunte: «Ora dobbiamo guardare avanti, dobbiamo ‘prendere il largo’, fiduciosi nella parola di Cristo: Duc in altum!…Nella causa del Regno non c’è tempo per guardare indietro, tanto meno per adagiarsi nella pigrizia. Molto ci attende, e dobbiamo per questo porre mano ad un’efficace programmazione pastorale post-giubilare» (n. 15).

Questo deve essere anche il nostro sguardo.

Parte seconda

ANDATE IN TUTTO IL MONDO…

Nessun ambito umano è estraneo al Vangelo

         Dalle ragioni della missionarietà passiamo ora agli ambiti nei quali la missionarietà deve essere vissuta.

La fede ci assicura: se Gesù Cristo è l’unico e universale salvatore, nessun ambito umano è estraneo al Vangelo!

In particolare, ci soffermiamo su tre ambiti di missionarietà: anzitutto l’ambito personale dei singoli e delle comunità, poi quello della pastorale ordinaria e, infine, l’ambito degli itinerari specifici per una presenza missionaria negli ambienti della vita sociale.

  1. Missionari nel cuore e nella vita

Una responsabilità che non si può delegare ad altri

  1. Il primo e insostituibile ambito della missionarietà, ossia della comunicazione della fede, è il cuore e, di conseguenza, la vita di ogni singolo cristiano.

Se, infatti, la missionarietà non si accende nell’intimo del cuore di ciascuno e non investe la propria vita, non la penetra e non la trasforma, come può esprimersi e realizzarsi in atteggiamenti e gesti, parole ed opere, iniziative e strutture che comunicano la fede agli altri? Se il Vangelo non conquista cuore e vita, come può essere annunciato e testimoniato?

In realtà, quest’ultimo interrogativo ci apre gli occhi sulla primissima missionarietà di ciascuno di noi: è la missionarietà verso se stessi. Sì, è il nostro cuore di credenti, è la nostra vita di credenti che devono essere sempre più posseduti dalla fede, dal momento che è dentro il nostro “io” che quotidianamente si combattono la fede e l’incredulità, la scelta per Cristo e l’adesione al “mondo”.

Senza trascurare un particolare che riveste molta importanza per una più completa comprensione e realizzazione pratica della missionarietà. Mi riferisco al fatto che la preghiera personale e comunitaria, come anche l’offerta a Dio con amore della propria vita con le difficoltà e i sacrifici che essa comporta hanno già in se stesse una profonda valenza missionaria. Anche così, infatti, ciascuno di noi diventa capace di raggiungere vicini e lontani, poveri e malati, non credenti e credenti che faticano a credere o che stanno perdendo la fede. Così nessuno si senta escluso dalla meravigliosa avventura evangelizzatrice che il Signore ha affidato e affida ogni giorno alla sua Chiesa: non i malati, non gli anziani, non coloro che vivono la propria totale consacrazione a Dio nel silenzio del monastero. Tutti, proprio tutti, se pure in diverso modo, possiamo essere e, di fatto siamo, protagonisti della missione.

In ciascun cristiano, dunque, in quanto è credente e membro della Chiesa quale comunità di fede, è impresso un DNA missionario. L’essere “discepolo” di Gesù, infatti, comporta per ciò stesso il farsi “testimone”, ossia il mostrarsi coerente nel tradurre la fede – l’adesione a lui – nella propria vita, e il divenire “missionario”, portando agli altri la parola e la testimonianza della propria fede.

È, questa, un’affermazione importante che sottrae al singolo cristiano la possibilità di ricorrere a qualche alibi o scusa per sfuggire al proprio personale impegno missionario. Anche nell’ipotesi che non ci sia un’iniziativa missionaria specifica, che non si appartenga a nessun gruppo o movimento o associazione ecclesiali, che non si prendano particolari iniziative nella propria realtà di Chiesa (parrocchia e vicariato) o nel proprio ambiente di vita, il cristiano sa di avere una propria responsabilità missionaria irrinunciabile e indelegabile, stampata indelebilmente nel suo stesso essere di cristiano e che va assolutamente assolta.

  1. Dobbiamo però fare un ulteriore passo. Quanto abbiamo or ora detto in rapporto a ciascun singolo cristiano – che peraltro nel mistero della Chiesa “corpo mistico di Gesù” non è mai un essere che può vivere solo e isolato, ma sta sempre in comunione con tutti gli altri -, lo dobbiamo ripetere anche in rapporto a ciascuna realtà di Chiesa, nelle sue più diverse forme di realizzazione. Si dà così una chiamata di grazia alla missionarietà rivolta alla singola Chiesa particolare (Diocesi), alla singola comunità parrocchiale, ai singoli vicariati, alle singole comunità religiose, a ciascuna delle varie aggregazioni ecclesiali, a ogni famiglia. E come già per ciascun singolo cristiano, così anche per ciascuna di queste realtà ecclesiali la responsabilità missionaria è irrinunciabile e indelegabile: nessuna realtà di Chiesa può mai accampare motivi di scusa, totale o parziale che sia, riferendosi alla poca o nulla missionarietà delle altre.

È evidente, dunque, la necessità di far maturare sempre più la coscienza missionaria sia personale che comunitaria.

L’Eucaristia, prima risorsa di missionarietà

  1. Per generare e far crescere questa consapevolezza missionaria propria di ogni cristiano e di ogni realtà di Chiesa ci sono un “luogo” e un “tempo” particolari ai quali riferirsi, un momento centrale e in qualche modo onnicomprensivo da vivere: è la celebrazione dell’Eucaristia, in specie nel “Giorno del Signore”. L’Eucaristia, infatti, mentre ci accoglie come discepoli, che stanno in ascolto della Parola di Dio, e come commensali, che partecipano alla rinnovazione del sacrificio di Gesù Cristo in croce ricevendone il Corpo dato e il Sangue versato, ci invia come testimoni e missionari di Gesù nel mondo.

            È utile per tutti riflettere seriamente sull’Ite, missa est. La traduzione comune e abituale “la messa è finita: andate in pace” è tutt’altro che indovinata. La traduzione più corretta è un’altra: andate, la messa giunge a compimento! Sì, quell'”andate” ha un significato assai denso e pregnante: non tanto il significato cronologico di un’azione che si è conclusa e che ha il tono del congedo (dimissio), quanto il significato teologico-pastorale di un’azione che tocca il suo vertice e che si espande con una partenza per una missione nel mondo (missio). Dunque: andate, comincia la missione!

La missione è parte essenziale della Messa. La celebrazione eucaristica racchiude in se stessa una grazia missionaria e sprigiona una responsabilità missionaria per la Chiesa e per quanti vi partecipano, come allude l’evangelista Luca nella narrazione dei discepoli di Emmaus: proprio dallo “spezzare il pane” scaturisce il movimento missionario dei “due” (Luca 24, 33) e di tutta la Chiesa (Luca 24, 46-47). A sua volta la liturgia, nelle parole del rito eucaristico e in particolare nelle “orazioni dopo la comunione”, attesta chiaramente l’apertura missionaria universale del sacrificio di Cristo. Così, ad esempio, nella Messa  del Crisma (Giovedì santo) la Chiesa prega: «Concedi, o Dio onnipotente, che, rinnovati dai santi misteri, diffondiamo nel mondo il buon profumo del Cristo».

La dimensione missionaria dell’Eucaristia trova la sua piena spiegazione a partire da Gesù Cristo. Egli, infatti, sulla croce, mediante il libero e totale dono di sé, ha raggiunto il vertice della sua obbedienza al Padre e alla sua volontà, della sua testimonianza di amore e di fedeltà a Dio, del suo essere missionario nell’annunciare e nel donare la “lieta notizia” della salvezza e della grazia. In quanto reale ripresentazione del sacrificio della croce offerto per tutti, l’Eucaristia inserisce vitalmente il cristiano che vi partecipa nello stesso slancio missionario di Cristo crocifisso e lo abilita ed impegna a rivivere questo medesimo slancio nella propria vita quotidiana: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Giovanni 13, 15).

La stessa teologia poi mostra come l’Eucaristia sviluppi un movimento non solo di dispersione (l’andate!) ma anche di ritorno, quasi un raccogliere il frutto della missione operata dalla Chiesa. «Se la sacra mensa è il luogo donde la Chiesa è mandata nel mondo, essa è anche quel luogo dove essa fa ritorno dal mondo, tutta ripiena del suo lavoro, come i discepoli dopo la pesca miracolosa» (J.-J. Von Allmen).

  1. La conseguenza s’impone da sé: se la missione è parte essenziale dell’Eucaristia e se l’Eucaristia viene vissuta nella sua “verità”, chi partecipa alla Messa deve uscire dalla chiesa con una rinnovata passione missionaria. E’ evidente che l’entusiasmo e l’incisività dell'”andate”, ossia della missione, sono direttamente proporzionali alla “qualità” personale della Messa, all’intensità della partecipazione spirituale e liturgica con cui i singoli fedeli e le comunità cristiane celebrano l’Eucaristia.

È in questo senso che faccio mio l’appello del Santo Padre perché si intensifichi lo sforzo pastorale destinato a far riscoprire la Domenica, il “Giorno del Signore (risorto)”, al cui centro sta l’Eucaristia: «Vorrei insistere, nel solco della Dies Domini, perché la partecipazione all’Eucaristia sia veramente, per ogni battezzato, il cuore della domenica: un impegno irrinunciabile, da vivere non solo per assolvere a un precetto, ma come bisogno di una vita cristiana veramente consapevole e coerente» (Novo millennio ineunte, 36).

Perché poi questo sforzo pastorale risulti più significativo ed efficace, è necessario un impegno comune, costante e generoso per restituire piena “verità” e, quindi, “qualità” alla celebrazione eucaristica. E’ questo un problema serio della vita cristiana, che deve entrare – con intento formativo e pratico – come argomento centrale negli incontri di aggiornamento del clero, nelle riunioni del Consiglio presbiterale, nella riflessioni dei Consigli pastorali vicariali e parrocchiali. In questa prospettiva ripropongo nuovamente a tutti la “Nota pastorale sulla celebrazione delle Sante Messe nell’Arcidiocesi di Genova” (14 settembre 2000) perché sia portata a compimento nel suo spirito e nella sua lettera.

  1. Le “provocazioni” missionarie della pastorale ordinaria   
  1. Non è infrequente, di fronte alle “linee diocesane per una pastorale organica e unitaria” o anche più semplicemente ad una singola “proposta diocesana”, un certo disagio, se non addirittura una vera e propria obiezione, da parte non solo dei sacerdoti, ma anche dei fedeli e, in particolare, degli operatori pastorali: ecco – si dice -, ci viene dato un altro peso, che finisce per gravare sull’attività pastorale della parrocchia, già fin troppo “congestionata” da programmi, impegni, incontri, iniziative, scadenze, ecc. E l’obiezione si fa più forte e insidiosa quando aumentano le difficoltà e le delusioni, quali ad esempio l’aridità del terreno – ossia la mancata, o quasi, risposta delle persone o la loro insufficiente collaborazione – e la scarsità degli “operai della messe”, sia preti che laici, uomini e donne.

È vero tutto questo, e altro ancora. Ma è anche vero che la nostra attività deve saper fare opera di discernimento per identificare gli impegni propriamente pastorali e veramente necessari, lasciando cadere quanto pastorale e necessario non è. Così come è ancora più vero che la stessa pastorale ordinaria, quella di tutti i giorni, deve essere oggi animata da un più convinto, energico e coraggioso spirito missionario. In altri termini, i gesti pastorali più comuni e abituali – quelli sinora posti sempre, dovunque e da parte di tutti, preti e laici – si situano di fatto oggi in un contesto sociale, culturale, religioso ed ecclesiale profondamente cambiato rispetto al passato. Se continuiamo a incontrare battezzati credenti e praticanti, non incontriamo forse in un numero maggiore battezzati che non praticano o che hanno lasciato la Chiesa o addirittura la fede, senza dire di persone indifferenti, agnostiche, ostili, di altra o di nessuna religione?

Eppure anche queste persone, convenzionalmente dette “lontane”, hanno non poche occasioni di incontrare la Chiesa – in concreto il prete e i laici credenti – nello svolgimento della sua attività pastorale. Certo, questo noi lo sappiamo. Ma ci è chiesto di saperlo in un modo nuovo, ossia vedendo e cogliendo in queste occasioni una “provocazione”, un’opportunità provvidenziale, un vero appello dello Spirito  per un incontro pastorale che risulti il più possibile comprensibile da un punto di vista umano, e quindi “credibile” e – se è nei disegni di Dio – anche “efficace” di grazia e di salvezza. Senza dire che la Chiesa stessa, più che attendere, deve muoversi per prima e suscitare l’incontro!

Questo significa che tutta la pastorale ordinaria – a cominciare da quella che si rivolge di fatto a battezzati non praticanti o persino non credenti –  dev’essere oggi animata da un nuovo soffio di missionarietà.. E’ questo il primo e immediato significato della “conversione” culturale e pastorale oggi richiesta alla stessa Chiesa.   

  1. Ci restringiamo qui a ricordare alcune occasioni di missionarietà tra le più comuni, che facilmente si possono ordinare attorno a cinque ambiti:
  • la celebrazione dei sacramenti,
  • l’incontro con i poveri,
  • l’evento della morte,
  • i pellegrinaggi e le forme di pietà popolare,
  • la pastorale verso i non credenti.

Prima però di prendere in esame queste occasioni di missionarietà riguardanti i cosiddetti “lontani”, è indispensabile richiamare con forza l’atteggiamento umano ed evangelico che sempre ci deve ispirare. I “lontani” sono da considerare e trattare con grande rispetto e con ancora più grande affetto. Il rispetto ci vieta assolutamente di giudicare, tanto più di condannare: Dio solo conosce il loro cuore! Il rispetto è dettato e si perfeziona nell’affetto: il Signore affida questi nostri fratelli al nostro amore, perché possiamo donare loro l’umile testimonianza della nostra vita e la Parola di Dio che salva. Dev’essere, la nostra, una carità delicata e premurosa, paziente e piena di speranza: una carità veramente evangelica, con la quale Gesù stesso ci rende partecipi della “bontà misericordiosa del nostro Dio”, «il Padre celeste (che) non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli» (Matteo 18, 14). E ancora: una carità umile e trepidante, che si interroga sulle proprie responsabilità di credenti nei riguardi dei fratelli “lontani”. Come diceva l’allora Card. Giovanni Battista Montini, «Se il fratello è lontano è perché non è stato abbastanza amato».

La celebrazione dei sacramenti

  1. La missionarietà della pastorale ordinaria ha uno spazio veramente ampio e frequente nella celebrazione dei sacramenti. Infatti, pur in una stagione di non piccola “scristianizzazione”, il Battesimo, la Prima Comunione, la Cresima, il Matrimonio continuano ancora ad essere richiesti da un alto o discreto numero di persone.

Ma quanti e quali problemi la pastorale ordinaria deve oggi affrontare! Ci sono genitori che chiedono il Battesimo del figlio, senza però che essi siano praticanti o credenti o in situazione regolare di matrimonio o comunque disponibili e capaci di un’educazione cristiana!

Per i bambini che ricevono la Prima Comunione e i ragazzi che ricevono la Cresima si pone il problema di una preparazione ai sacramenti, che di fatto non poche volte è “dimezzata” – forse sarebbe meglio dirla “dissociata” -, perchè vede sì una certa presenza alla catechesi, ma non la partecipazione costante alla Messa domenicale. E come realizzare, in questa preparazione sacramentale, un abituale coinvolgimento dei genitori?

Numerosi e gravi problemi sorgono per chi chiede di “sposarsi in Chiesa“, sia in ordine ad avere e a professare la fede nel fatto che il matrimonio dei battezzati è “sacramento”, sia in ordine ad assumersi l’impegno cosciente, libero e responsabile per una vera vita coniugale, ossia secondo le proprietà e le finalità “naturali” impresse nell’uomo e nella donna dal disegno di Dio creatore.

Come si vede, si tratta di occasioni che fanno incontrare la Chiesa con cristiani – adulti, giovani, ragazzi e bambini – che hanno bisogno di essere nuovamente evangelizzati.

  1. Quale strategia pastorale porre in atto? Che cosa fare concretamente?

Prima di sollecitare delle “norme” precise – alcune, peraltro, esistono ma non per questo sono sempre osservate! – , occorre che i sacerdoti e i laici impegnati nella pastorale tengano vive alcuneconvinzioni di fondo“. In particolare essi devono:

—  avvertire lucidamente che nel campo della celebrazione dei sacramenti si è da tempo aperto un delicato e urgente “compito missionario” per la Chiesa;

—  suscitare l’interesse e sollecitare il coinvolgimento responsabile dei genitori, non limitandosi ad un’azione pastorale rivolta solo ai bambini e ai ragazzi;

—  inserire la pastorale sacramentale nel complessivo cammino formativo dell’intera comunità parrocchiale.

Certo, non pochi preti e anche laici di fronte a queste “convinzioni di fondo”, non solo condivise ma anche rese oggetto di ripetuti sforzi pastorali, rimangono delusi e stanchi, incerti sulla scelta concreta da farsi circa l’ammissione ai sacramenti. Ora, senza dimenticare l’invito del profeta a non spezzare una canna incrinata e a non spegnere uno stoppino dalla fiamma smorta (cfr. Isaia 42, 3), dobbiamo però cogliere la vera portata della sfida pastorale che oggi la Chiesa è chiamata ad affrontare: non è forse quella di riscoprire e riproporre una vera e propriainiziazione cristiana“, una forma di “catecumenato“, secondo nuovi modelli adeguati all’attuale situazione?

In questo senso, incoraggio gli uffici diocesani della liturgia, della catechesi e della famiglia perché, con il coinvolgendo e l’apporto anche di altri sacerdoti e laici, promuovano con opportune iniziative questo “salto di qualità” anche da noi. Ma già da ora non ci mancano i “sussidi”: tuttora validi sono per la nostra Chiesa di Genova il sussidio “Preparazione dei genitori al battesimo dei figli e itinerario di perseveranza” (1995) e il documento su “La preparazione particolare e immediata al sacramento del matrimonio” (4 ottobre 1995).

  1. Concludiamo ricordando il significato più profondo della missionarietà legata alla celebrazione dei sacramenti. E’ una missione di evangelizzazione da non vedere soltanto – come sinora abbiamo detto – in rapporto alle occasioni che la Chiesa ha di incontrare cristiani in vario modo “scristianizzati”; essa è iscritta innanzitutto nella natura stessa dei sacramenti, la cui celebrazione liturgica si configura come gesto e annuncio di fede in Gesù Cristo salvatore.

Ma le nostre liturgie sono davvero gesto e annuncio di fede? Com’è la concreta modalità di celebrazione dei sacramenti nelle nostre comunità e, in particolare, da parte di noi sacerdoti? E’ un segno luminoso e attraente, oppure un segno opaco e scoraggiante? E’ un reale servizio alla riscoperta o alla crescita della fede, oppure un ulteriore ostacolo che può talvolta giungere a  generare disaffezione verso di essa in quanti vi prendono parte?

La Chiesa e i poveri

  1. Un altro importante campo della missionarietà della pastorale ordinaria è data da alcune categorie di persone che ricorrono abitualmente alla Chiesa perché si trovano in condizione di maggior bisogno, materiale o/e morale. Spesso trascurati dagli altri, essi ripongono la loro speranza nella Chiesa. Anche questo è un campo quanto mai vasto e vario. Si pensi alle persone anziane, alle persone sole, ai malati e agli infermi, ai sofferenti, ai poveri segnati dalle cosiddette antiche e nuove povertà, agli immigrati, ai disagiati, ai dimenticati ed emarginati, ai calpestati nei loro sacrosanti diritti umani, ecc.

È sufficiente qui ricordare come, da sempre, la pastorale della Chiesa sia stata attenta, sensibile e operosa nel venire incontro alle tante e diverse ferite e piaghe, non solo dei corpi, ma  anche dei cuori e delle anime, rivivendo la “compassione” di Gesù verso la gente (cfr. Marco 6, 34) e annunciando così – con la testimonianza concreta della vicinanza, dell’affetto e dell’aiuto – “il Vangelo della carità”, ossia la carità di Dio, il suo amore per ogni uomo e donna.

A chiedere, anzi ad esigere questo dalla Chiesa è Gesù Cristo stesso, lui che proprio nei poveri si è voluto identificare, secondo la notissima pagina evangelica del Giudizio finale. Il Papa così la commenta nella lettera Novo millennio ineunte: «Questa pagina non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul versante dell’ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo» (n. 48). E ancora: «Stando alle inequivocabili parole del Vangelo, nella persona dei poveri c’è una sua presenza speciale, che impone alla Chiesa un’opzione preferenziale per loro» (n. 48).

La scelta a favore dei poveri possiede un valore assai luminoso ed efficace di evangelizzazione e di missionarietà. E’ ancora il Papa a scrivere: «Attraverso tale opzione, si testimonia lo stile dell’amore di Dio, la sua provvidenza, la sua misericordia, e in qualche modo si seminano ancora nella storia quei semi del Regno di Dio che Gesù stesso pose nella sua vita terrena venendo incontro a quanti ricorrevano a lui per tutte le necessità spirituali e materiali» (n. 48).

  1. Ma non basta che la Chiesa sia attenta e sollecita verso i poveri. Occorre passare da una Chiesa per i poveri ad una Chiesa povera, nel significato evangelico del termine: povera perché pronta a disfarsi di inutili pesi, povera perché consapevole che il segreto della propria forza è la grazia di Dio, povera perché capace di usare i necessari mezzi umani con distacco e libertà.. Come diceva il card. R. Etchegaray al Concistoro straordinario dei Cardinali il 21 maggio 2001: «Tocchiamo qui forse la questione più provocante, la più urgente per l’evangelizzazione del nuovo millennio. Solo una Chiesa povera può diventare una Chiesa missionaria e solo una Chiesa missionaria può esigere una Chiesa povera».

Nessuno consideri questo un discorso astratto, lontano dalla vita. Anche perché questo discorso ci trova in molti, e forse tutti, in qualche modo inadempienti. Come non fare, dunque, tutti insieme un serio esame di coscienza in vista di risoluzioni concrete, nel segno di uno stile di vita più sobrio e meglio corrispondente alle esigenze della povertà evangelica? In realtà, proprio alla luce della sua straordinaria capacità missionaria ed evangelizzatrice, esso deve scuotere l’indifferenza e la pigrizia e accendere l’interesse e la generosità di ciascuno di noi, del mondo giovanile, delle singole comunità parrocchiali e vicariali, delle famiglie religiose col carisma del servizio agli ultimi, delle varie realtà ecclesiali.

E se “grande” è la carità già in atto nelle diverse realtà della nostra Chiesa di Genova, ancora “più grandi” sono le urgenze che attendono risposta. In tal senso, in continuità con la lettera “Alzati e cammina” (nn. 21-22), rinnovo l’appello alle parrocchie e ai vicariati perchè rilancino e sostengano il ruolo dei Centri vicariali di ascolto, come luoghi di conoscenza – nel territorio – delle povertà esistenti e delle risorse per rispondervi, e il ruolo delle Caritas parrocchiali, che devono sensibilizzare tutti a quella carità che è elemento costitutivo e distintivo dell’autentica comunità ecclesiale.

Il Papa non si stanca di “provocarci” e di incoraggiarci: «E’ l’ora di una nuova ‘fantasia della carità’, che si dispieghi non tanto e non solo nell’efficacia dei soccorsi prestati, ma nella capacità di farsi vicini, solidali con chi soffre, così che il gesto di aiuto sia sentito non come obolo umiliante, ma come fraterna condivisione» (n. 50).

Di fronte al mistero della morte 

  1. Ricordiamo un terzo ambito della missionarietà della pastorale ordinaria: quello della morte. E’ un ambito molto delicato, che richiede grande attenzione e che spesso ci vede in qualche modo impauriti, sconcertati, senza parole. Nello stesso tempo, esso può offrire opportunità straordinarie e impensate di particolare vicinanza della Chiesa ai morenti e alle loro famiglie. Infatti, nel disegno di Dio, la “maternità” della Chiesa come sorgente di speranza e strumento di vita eterna, può essere “percepita” e “accolta” in un modo tutto speciale proprio nei momenti del dolore per la morte di una persona amata.

Certo, nella misura in cui nella nostra società e nella nostra cultura – che contagiano negativamente anche i cristiani, ossia “coloro che hanno speranza” perché credono alla risurrezione e alla vita eterna (cfr. 1 Tessalonicesi 4, 13 ss.) – si perde o si oscura il vero senso della vita, inevitabilmente si finisce per smarrire anche il vero senso della morte. Questa diventa un enigma sommo e insolubile. Meglio, allora, renderla oggetto di una “censura” e non parlarne neppure! Senza dire che può farsi motivo persino di “bestemmia” verso Dio e la sua bontà.

Ma è proprio questa situazione che deve spingere la Chiesa – in concreto i sacerdoti, soprattutto, e i credenti – a ricercare percorsi pastorali per aiutare, con delicatezza e con fiducia, le persone a porsi il problema della morte e quindi dell’aldilà. Questi percorsi passano attraverso la predicazione ordinaria (che non può passare sotto silenzio sistematico i “Novissimi”), la giusta valorizzazione della Novena dei defunti in ore opportune, ma soprattutto la celebrazione dei funerali. Questi ultimi poi, come l’esperienza ci dice, sono spesso un’occasione privilegiata nella quale si avvicinano alla Chiesa tante persone anche estranee alla fede e alla sua pratica.

Per questo, la liturgia funebre nelle chiese e nei cimiteri, come pure i momenti di incontro e di preghiera (il rosario o altro) presso la famiglia e i parenti del defunto, esigono una grande finezza di amore e un delicato tratto umano: chiedono, cioè, di essere ben preparati e attuati con gesti rituali misurati e con modalità discrete. Anche per questo sollecito gli Uffici diocesani più direttamente interessati perché preparino qualche utile sussidio per sacerdoti e laici.

Ci auguriamo così che questi momenti liturgici potranno diventare, in un contesto profondamente umano di fraterna condivisione della sofferenza, un’umile e preziosa testimonianza di fede e di speranza cristiana. Anche per questo in tutte le situazioni, ma soprattutto in quelle di maggiore disgrazia o di povertà, devono risplendere la gratuità della liturgia funebre della Chiesa e, insieme, la carità operosa del sacerdote e della comunità cristiana verso quanti subiscono conseguenze dolorose dalla morte di una persona cara.

Pellegrinaggi e pietà popolare

  1. C’è ancora un altro ambito della pastorale ordinaria nel quale può e deve svilupparsi una maggiore sensibilità missionaria ed evangelizzatrice: è l’ambito delle diverse forme di pellegrinaggio ai santuari o comunque ai luoghi sacri, come pure delle varie espressioni di pietà popolare. Su questo ambito, anche se brevemente, desidero attirare l’attenzione di tutti.

Il pellegrinaggio, in particolare, è una preziosa occasione pastorale che merita di essere maggiormente valorizzata, tanto più che da anni esso sta riprendendo a suscitare interesse e adesione. E’, dunque, un momento importante nella programmazione spirituale della Diocesi, dei vicariati e delle parrocchie, ma anche delle varie realtà e categorie ecclesiali. Il pellegrinaggio, infatti, può coinvolgere la partecipazione di persone che, talvolta, vivono la fede cristiana solo “così così” e “a loro modo”. Se gestito con intelligente cura, esso può diventare strumento di evangelizzazione, momento di silenzio e di preghiera, invito alla conversione o alla riscoperta della vita cristiana, spazio di fraternità e di amicizia.

Anche la pietà popolare, le cui manifestazioni (come le feste  le sagre, e da noi le processioni dei “cristezzanti”) vedono tuttora la partecipazione di persone non sempre vicine alla fede e alla pratica cristiana, può rivelarsi uno strumento di missionarietà evangelizzatrice. Purchè ci si impegni a purificare la pietà popolare da deformazioni o deviazioni che la imprigionano in esteriori manifestazioni cultuali senza comportare un’autentica adesione di fede. E, soprattutto, purchè ci si impegni ad arricchirla di valori autenticamente evangelici, come l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera, l’esercizio della carità, la comunione con la Chiesa.

Come scriveva già Paolo VI nel 1974, nell’esortazione Evangelii nuntiandi, la religiosità popolare «se ben orientata, soprattutto mediante una pedagogia di evangelizzazione, è ricca di valori. Essa manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione» (n. 48).

Senza dimenticare i legittimi aspetti umani, la pastorale dei pellegrinaggi e delle diverse forme di pietà popolare sia, dunque, più coraggiosa nel proporre mete e tappe di una spiritualità robusta e di una vita cristiana matura, che contempli una più consapevole e responsabile partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa, sia all’interno delle comunità cristiane sia nei propri ambienti di vita.

La pastorale verso i non credenti

  1. Ricordiamo, infine, l’ambito missionario per antonomasia, quello verso i non cristiani. E’ la missio ad gentes, è la missione che ha come destinatari – per usare le parole del Concilio Vaticano II – «i popoli e i gruppi che ancora non credono in Cristo», «coloro che sono lontani da Cristo» e tra i quali la Chiesa «non ha ancora messo radici» e la cui cultura non è stata ancora influenzata dal Vangelo (cfr. Ad gentes, nn. 6. 23. 27).

Nella sua enciclica missionaria Giovanni Paolo II, dopo aver ricordato che nell’unica missione della Chiesa ci sono situazioni diverse, afferma che «i confini fra cura pastorale dei fedeli, nuova evangelizzazione e attività missionaria specifica non sono nettamente definibili, e non è pensabile creare tra di esse barriere o compartimenti-stagno». Ma subito precisa: «Bisogna, tuttavia, non perdere la tensione per l’annunzio e per la fondazione di nuove Chiese presso i popoli o gruppi umani, in cui ancora non esistono, poiché questo è il compito primo della Chiesa che è inviata a tutti i popoli, fino agli ultimi confini della terra”. E conclude: “Senza missione ad gentes la stessa dimensione missionaria della Chiesa sarebbe priva del suo significato fondamentale e della sua attuazione esemplare” (Redemptoris missio, 34).

Queste ultime parole sono un rinnovato e forte invito per noi a coltivare un più profondo amore e ad offrire una collaborazione più generosa e costante – di preghiera e di aiuto – alle “missioni”: in specie alla missione diocesana di Santo Domingo e a quante vedono la passione evangelizzatrice e il servizio umano di sacerdoti e di religiosi originari della nostra Chiesa di Genova o ad essa variamente legati.

È comunque tempo di superare una prospettiva solo “spaziale” o “geografica” di missione ad gentes (i cosiddetti territori di missione, da noi lontani) per assumere una prospettiva più “personale”: là dove ci sono non cristiani, non credenti in Gesù Cristo e nel suo Vangelo (sia singoli che gruppi), là si può e si deve attuare un’autentica missione ad gentes. E’ dunque praticabile anche da noi, nelle nostre comunità e nei nostri ambienti di vita! Anche tra noi, infatti, ci sono persone che non credono in Gesù Cristo: basti pensare a coloro che provengono da altri Paesi e appartengono ad altre religioni, o a coloro che non appartengono a nessuna religione, o a quanti, pur essendo nati in ambienti cristiani e forse anche nelle nostre Città, non sono stati battezzati.

  1. Ci soffermiamo ora in una maniera più diretta sulla pastorale verso i non credenti.

            Anche nella nostra Chiesa di Genova esistono da tempo esperienze permanenti di impegno missionario rivolte in modo specifico ai non credenti e agli indifferenti. Simili esperienze sono per lo più espressione di movimenti e di gruppi diversi. Ciascuna di queste esperienze è caratterizzata da una propria strategia e si avvale di un proprio metodo sviluppato con appropriati strumenti. Ma tutte, pure nella diversità e specificità di ciascuna, sono riconducibili ad un essenziale denominatore comune: si tratta di un percorso che, partendo dalla testimonianza personale, suscita le domande di fondo della vita e, sviluppando un dialogo nella carità e nella verità, conduce all’annuncio esplicito del Vangelo e sfocia in un cammino di vera e propria iniziazione e di perseveranza.

Mentre ancora una volta esprimo il mio apprezzamento e rivolgo il mio incoraggiamento a continuare in questo prezioso servizio verso i non credenti, chiedo soprattutto ai sacerdoti e ai religiosi – al di là, evidentemente, del loro personale impegno nell’incontro e nel dialogo con i non credenti – una più cordiale disponibilità verso queste forme di pastorale missionaria. Nello stesso tempo chiedo ai movimenti e ai gruppi che vi sono attivamente coinvolti una maggiore collaborazione con la pastorale ordinaria della Diocesi. Questa collaborazione – che peraltro è già attuata in alcune parrocchie, con modalità diverse e con buoni frutti – è richiesta dal fatto che tali esperienze, per essere autentiche, devono svilupparsi con una limpida e robusta coscienza ecclesiale: sono a nome e al servizio di quell’unica e medesima Chiesa che Gesù risorto chiama a «predicare il Vangelo ad ogni creatura» (Marco 16, 15).

Chiedo, in particolare, alla Consulta diocesana delle aggregazioni laicali, che già si è ampiamente occupata del problema della missionarietà, di elaborare alcune linee per una “impostazione quadro”, che potrebbero poi essere prese in considerazione dal Vescovo per un’iniziativa diocesana in cui possano riconoscersi tutti e tutti sentirsi impegnati. In un simile “quadro” le esperienze sopra ricordate e altre ancora potranno sempre più ritenersi come espressioni “normali” della pastorale ordinaria e i movimenti e i gruppi che già impegnati in questo ambito potranno più facilmente rimanere inseriti nella pastorale organica e unitaria della Diocesi, caratterizzandola con una più intensa e coraggiosa sensibilità missionaria.

III.  La presenza missionaria negli ambienti della vita sociale

  1. Andate in tutto il mondo, perché la “lieta notizia” della salvezza è per tutti. E’ la consegna che i discepoli di ogni tempo ricevono da Cristo risorto.

Certo, il Vangelo chiede di essere annunciato in continuità agli stessi credenti all’interno della vita della comunità cristiana. Lo esige il fenomeno della “scristianizzazione”, del ritorno al “paganesimo” e dell’indifferenza che attraversa anche le nostre comunità ecclesiali. Lo mostra, tra l’altro, il fatto che la percentuale dei cristiani che frequentano più o meno abitualmente la Chiesa tocca oggi livelli piuttosto bassi, tanto da far pensare che la parabola evangelica del pastore in cerca della pecora smarrita deve essere ritrascritta, modificando la proporzione tra le pecore che sono dentro e quelle che sono fuori dell’ovile!

Con altrettanta certezza, sono gli stessi credenti a dover essere testimoni e missionari nei loro ambienti di vita sociale. Proprio qui – negli ambienti di vita – la missionarietà si fa più urgente: infatti, se la “scristianizzazione” tocca le stesse comunità cristiane, tocca più pesantemente la società umana e, dunque, gli ambienti di vita professionale e sociale.

Si aggiunga in particolare che, anche a prescindere dalla mutata condizione di fede e di religiosità nella nostra società “scristianizzata”, i laici – in forza dell’indole secolare loro propria e peculiare – hanno una vocazione essenziale e permanente di «cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio» (Lumen gentium, 31). Sono chiamati, dunque, a vivere e a testimoniare la loro fede, la loro adesione al Vangelo di Gesù Cristo «nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli gli impieghi e gli affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta» (Lumen gentium, 31).

È richiesta allora una profonda conversione culturale e pastorale: il cristiano è cristiano sempre e dovunque, è cristiano non solo in chiesa o nei momenti di fede e di preghiera, ma anche nel mondo, ossia negli ambienti concreti della vita quotidiana. E’ naturale che ci siano sentimenti e gesti diversi, quelli vissuti in chiesa e quelli vissuti sul lavoro o nella scuola o in altri ambienti. Non è naturale, però, sentirsi “impegnati” come cristiani in chiesa e “disimpegnati” fuori.

  1. Gli ambienti di vita non possono essere considerati solo in modo profano ed esteriore, quasi come semplice spazio e tempo della propria attività umana e, dunque, “senza significato” per la fede propria e altrui. Essi devono essere considerati anche in modo religioso e interiore, come il contesto concreto nel quale vivere e comunicare la fede. E’ nell’ambiente – ossia nel tessuto delle relazioni personali che lo animano e nelle attività umane che lo vivificano – che Dio ci chiama a crescere nella fede e, quindi, nell’amore per Dio e per i fratelli, anche mediante la testimonianza e l’opera di evangelizzazione. E’ qui che Dio chiama ad aiutare chi ci sta vicino a ricuperare il senso religioso, a ripensare a Dio e alla sua paternità.

Ciò interessa ogni cristiano, dal momento che ciascuno di noi non può vivere fuori di un ambiente o, meglio, di una pluralità di ambienti. Ciascuno, allora, deve interrogarsi sulla qualità della propria fede: se solo intimista e ritualista, relegata esclusivamente al mondo della coscienza e dei riti, o se anche “esistenziale”, cioè inserita con la coerenza dovuta all’appello della coscienza morale e alla grazia del rito religioso nella propria vita e nei suoi diversi ambienti.

Ma ciò interessa anche i cristiani che vivono e operano insieme, in uno stesso ambiente di vita. In una simile situazione, sono gli stessi cristiani a sentirsi interpellati, nei riguardi di tutti coloro che credenti e non credenti vivono e operano nel medesimo ambiente, per una testimonianza e una missionarietà che rivestano una forma in qualche modo comunitaria – comune e condivisa -, e che può giungere anche a varie forme più o meno propriamente organizzate. Del resto, la testimonianza e la missionarietà conducono i cristiani a non avere alcuna paura a “uscire allo scoperto”, fuori dell’ambiente protetto della chiesa, memori della parola di Gesù: «Chi  mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Matteo 10, 32-33).

È in questo contesto che possono nascere gruppi o comunque incontri tra le persone, in ordine a sviluppare confronti, riflessioni, gesti e iniziative con un approccio umano e cristiano ai diversi problemi del proprio ambiente di vita. I percorsi di testimonianza e di missionarietà negli ambienti possono, anzi devono, essere diversificati, in rapporto alla varia configurazione degli ambienti stessi: per la qualità e il numero delle persone coinvolte, per il tipo di attività svolto, per il tempo disponibile, per la continuità o meno dei rapporti interpersonali. Così da interventi molto familiari e spontanei si potrà passare a interventi più impegnativi e programmati. Senza mai dimenticare, poi, che l’ambiente di vita si risolve nell’essere fondamentalmente un “luogo” di incontro e di dialogo, di conoscenza e di amicizia, che solo con il tempo può portare a cammini di fede (in taluni casi anche con momenti di riflessione evangelica e di preghiera), che si potranno realizzare anche fuori dell’ambiente stesso.

Le riflessioni e indicazioni ora brevemente presentate chiedono di essere messe in atto e verificate in un modo più concreto e in riferimento più specifico ai diversi ambienti di vita, come la famiglia, la scuola-università-cultura, la comunicazione sociale, il lavoro, la salute-malattia, le vecchie e nuove povertà, la società civile, il tempo libero e lo sport.

  1. Ma quale ambiente privilegiare per l’azione missionaria nel percorso pastorale diocesano per l’anno 2001-2002? L’interrogativo è stato posto al Convegno diocesano, che si è però sostanzialmente limitato a sottolineare con una certa forza l’esigenza di porre una grande attenzione alla famiglia, tanto più che questa si configura di fatto come “crocevia” di tutti o quasi gli ambienti di vita sociale. Minor impegno il Convegno ha manifestato nell’individuare una gerarchia di urgenza pastorale all’interno degli altri ambienti. Non posso non condividere la priorità pastorale della famiglia – realtà tanto in crisi, eppure sempre capace di ripresa e di rilancio di valori -, come gli stessi Vescovi italiani rilevano nel documento Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (n. 52).

Nello stesso tempo, la necessità, ribadita da tutti i partecipanti al Convegno, di dedicare questo anno pastorale a far maturare la convinzione della missionarietà come grazia e responsabilità della Chiesa e di ciascun cristiano mi spinge a ritenere l’anno in corso come un “anno vigiliare”, un “tempo di preludio” in ordine a operare poi la scelta di un particolare ambiente di vita sociale come elemento unificante e qualificante del futuro percorso pastorale della Diocesi.

Ma anno vigiliare non significa anno di vuota o pigra attesa. Significa, in realtà, anno di preparazione attenta e operosa. Del resto, la vita non si ferma e le urgenze pastorali non si possono mettere a tacere. In questa condizione allora mi rivolgo, anzi tutto, a quanti sono coinvolti in ciascuno degli ambienti di vita sociale sopra ricordati e, in particolare, ai responsabili di Uffici diocesani, di associazioni professionali, di realtà aggregative laicali e a tutti dico: Proseguite nella vostra già consueta attività missionaria, anzi rilanciatela ancora di più! Impegnatevi non solo a studiare meglio la situazione in atto, ma anche ad elaborare una programmazione per i prossimi anni, che risulti più dinamica, coordinata e incisiva.

  1. Mi rivolgo ora a tutti indistintamente, sia singoli che comunità e realtà di Chiesa: dobbiamo avere una speciale attenzione a quella “presenza traversale” a tutti i diversi ambienti di vita sociale che è la presenza dei poveri e dei sofferenti.

È vero che si dà anche un ambito specifico e proprio al riguardo, che abbiamo denominato delle “vecchie e nuove povertà”. Ma il richiamo ad avere una sensibilità più forte e, quindi, una dedizione più generosa verso quanti sono variamente colpiti dalla sofferenza nel corpo e nello spirito serve a far rivivere nelle nostre comunità cristiane – e negli ambienti di vita – il ministero terapeutico di Gesù, ossia la sua compassione amorevole, fonte di consolazione e di speranza: un ministero, questo, che diviene ancor più necessario in una società che, rimanendo inginocchiata agli idoli dell’avere, del potere e del godere, non può non emarginare quelli che non contano, come sono appunto i tanti poveri e sofferenti.

Il giudizio di Dio, che tutti ci attende, verterà certamente sul nostro comportamento verso il Signore Gesù presene nei poveri!

Infine, non dobbiamo dimenticare che la presenza missionaria dei cristiani negli ambienti della vita sociale, se coinvolge in modo particolare i singoli fedeli laici, uomini e donne, coinvolge anzitutto la stessa Chiesa come tale e, per la sua parte, la nostra Chiesa di Genova. Questo avviene, tra l’altro, con un duplice intervento: quello della dottrina sociale, con la quale la Chiesa illumina e dà risposta alle non poche questioni della vita umana (fisica, economica, sociale, culturale e politica) “alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana” (Gaudium et spes, n. 46); quello della testimonianza dei credenti, sia singoli che variamente aggregati.

Aggiungiamo ancora che la presenza missionaria della Chiesa come tale si esprime pure attraverso il servizio dei presbiteri: certo, sempre nel rispetto delle competenze e secondo modalità limpide e discrete, ma anche nella consapevolezza di una responsabilità specifica propria del sacerdote nei riguardi del mondo, e quindi degli ambienti della vita sociale.

Parte terza

RENDETE RAGIONE DELLA SPERANZA CHE  E’ IN VOI

Non c’è vera missionarietà senza formazione

Il Signore Gesù, con il dono del suo Spirito di verità e di forza, offre a ogni cristiano la grazia e la responsabilità di essere discepolo, apostolo, testimone e missionario.

Ma, in un certo senso, non abbiamo mai terminato di imparare a vivere il dono e il compito della missionarietà, ossia dell’annuncio e della testimonianza del Vangelo. Ciò significa che dobbiamo instancabilmente percorrere un cammino di formazione permanente alla missionarietà.

Quali sono i contenuti fondamentali di questo cammino formativo? E quali i protagonisti e i metodi della formazione?

Il discepolato cristiano         

  1. La formazione alla missionarietà s’identifica con la formazione alla fede in Gesù Cristo: detto in termini evangelici, è il discepolato cristiano, la sequela Christi. Ciò comporta conoscenza di Gesù, conversione, amore, amicizia, dialogo, imitazione, comunione intima di vita e di destino. In una parola: una nuova, originale, esaltante esperienza personale di vita.

E questa non può essere trattenuta per sé, ma si apre irresistibilmente agli altri. E’ contagiosa, è missionaria. Chi fa la gioiosa scoperta, ossia “trova” Gesù facendone esperienza vitale, non può non rivolgersi agli altri per dire – non tanto con la parola quanto con la vita – “Vieni e vedi”. E’ l’avventura di Filippo con Natanaele, espressa dall’evangelista che re riferisce il dialogo: «Filippo incontrò Natanaele e gli disse: ‘Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret’. Natanaele esclamò: ‘Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?’. Filippo gli rispose: ‘Vieni e vedi’» (Giovanni 1, 45-46). E’ la stessa avventura di ogni autentico discepolo del Signore.

  1. Ora la radice viva da cui scaturisce e la forza che sostiene la formazione alla fede come esperienza personale di vita è la contemplazione di Gesù e del suo volto. Tutta quanta l’esperienza cristiana, infatti, può sintetizzarsi nel vedere il Signore: «E i discepoli gioirono al vedere il Signore», scrive Giovanni nel riferire l’incontro di Cristo risorto con i suoi la sera della Pasqua (Giovanni 20, 20).

Ma non si può vedere il Signore e rimanere fermi: la “visione” accende nel cuore il bisogno e la passione irresistibili della “missione”, come testimonia l’esperienza pasquale di una donna: «Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai discepoli: ‘Ho visto il Signore’ e anche ciò che le aveva detto» (Giovanni 20, 18).

Non c’è contemplazione senza missionarietà, così come non c’è missionarietà senza contemplazione. E’ per questo che la lettera Novo millennio ineunte, proprio per rispondere al comando di Gesù Duc in altum con un rinnovato slancio di missionarietà, invita la Chiesa a tenere fisso il suo sguardo di fede e di amore su Gesù Cristo, a contemplare il suo volto. «Il tuo volto, Signore, io cerco» (Salmo 27, 8). Il Papa commenta: «L’antico anelito del Salmista non poteva ricevere esaudimento più grande e sorprendente che nella contemplazione del volto di Cristo. In lui veramente Dio ci ha benedetti, e ha fatto ‘splendere il suo volto’ sopra di noi (cfr. Salmo 67, 3). Al tempo stesso, Dio e uomo qual è, egli ci rivela anche il volto autentico dell’uomo, ‘svela pienamente l’uomo all’uomo’ (Gaudium et spes, 22)» (n. 23).

Rimandiamo allora, per quanti desiderano percorrere un cammino di formazione alla fede e pertanto alla missionarietà, alla lettura meditata del bellissimo capitolo della citata lettera del Santo Padre “Un volto da contemplare” (nn.16-28) e del capitolo primo “Lo sguardo fisso su Gesù, l’Inviato del Padre” nel documento pastorale della C.E.I, Comunicare il Vangelo  in un mondo che cambia (nn. 10-31).

  1. Se la contemplazione del volto di Gesù è la radice e il sostegno della formazione alla fede, la meta ultima cui è orientata tale formazione è la santità, che è poi lo stesso discepolato cristiano condotto alla perfezione dell’amore, la stessa sequela Christi come imitazione e partecipazione della vita nello Spirito propria di colui che è “il solo santo”.

La proposta che il Papa ha rivolto ai giovani a Tor Vergata: «Abbiate l’ambizione di essere santi come Lui è Santo! Non abbiate paura di essere i santi del nuovo millennio!» è per tutti noi, nessuno escluso. La voce del Papa è l’eco di quella del Concilio Vaticano II, che ha riaffermato con grande vigore come verità fondamentale della fede cristiana l’universale vocazione alla santità. E’ una vocazione che, prima di essere scritta nei documenti conciliari o di essere fatta risuonare dalla voce della Chiesa, è impressa indelebilmente nell’essere stesso del cristiano: a questa altezza di santità il Padre chiama ciascuno dei suoi figli!

Ci siano di stimolo nel richiamare a noi stessi il destino di santità che ci è stato riservato dall’immenso amore del Padre i santi e le sante della nostra Chiesa di Genova, in particolare l’ultimo proclamato santo dal Papa il 10 giugno 2001, l’umile e “povero prete” don Agostino Roscelli (1818-1902).

Rileviamo come la santità, mentre arricchisce del dono dello Spirito la singola persona, rifluisce beneficamente su tutta la Chiesa, divenendo fonte di grazia anche per la sua azione pastorale. Sì, la santità riveste un fondamentale interesse per la pastorale della Chiesa: ne è la meta ultima, anzi il contenuto originale e insostituibile. Il Papa è quanto mai esplicito: «La prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quella della santità… E’ ora di riproporre a tutti con convinzione questa ‘misura alta’ della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle famiglie cristiane deve portare in questa direzione» (Novo millennio ineunte, nn. 30-31).

La santità, dunque, decide dell’autentica vitalità e della vera incisività dell’azione pastorale e della missione evangelizzatrice della Chiesa e di ciascun cristiano. Mi sia concesso riportare le parole del beato cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, che io stesso con i miei compagni di seminario ho potuto ascoltare qualche giorno prima della sua morte, nell’agosto 1954: «Voi desiderate un ricordo da me. Altro ricordo non ho da darvi che un invito alla santità. La gente pare che non si lasci più convincere dalla nostra predicazione; ma di fronte alla santità, ancora crede, ancora si inginocchia e prega. La gente pare che viva ignara delle realtà soprannaturali, indifferente ai problemi della salvezza. Ma se un santo autentico, o vivo o morto, passa, tutti accorrono al suo passaggio…».

  1. Non c’è, però, santità senza preghiera, senza vita sacramentale, senza ascolto della Parola di Dio, senza carità fraterna e solidale. Su tutto questo si dilunga la lettera del Papa, che offre una serie di preziosi insegnamenti per sviluppare il nostro cammino formativo alla fede cristiana. Bastino alcuni rilievi essenziali.

La pedagogia della santità, scrive il Papa, comporta l’arte della preghiera: «E’ necessario imparare a pregare, quasi apprendendo sempre nuovamente quest’arte dalle labbra stesse del Maestro divino, come i primi discepoli: ‘Signore, insegnaci a pregare!’ (Luca 11, 1). Nella preghiera si sviluppa quel dialogo con Cristo che ci rende suoi intimi…». E ancora: «Le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche ‘scuole’ di preghiera… Una preghiera intensa, che tuttavia non distoglie dall’impegno nella storia: aprendo il cuore all’amore di Dio, lo apre anche all’amore dei fratelli, e rende capaci di costruire la storia secondo il disegno di Dio… Occorre allora che l’educazione alla preghiera diventi in qualche modo un punto qualificante di ogni programmazione pastorale» (Novo millennio ineunte, nn. 32-34).

Vogliamo ricordare qui, con sentimento di gratitudine al Signore, le tantissime persone – anziane, malate, sofferenti, ecc. – che nella nostra Chiesa di Genova amano la preghiera e la coltivano nel nascondimento, nel silenzio, nell’umiltà ma con generosità: sono sorgente di grazie e di santità per tutti. In particolare vogliamo ricordare la preghiera delle sorelle monache di clausura: siano benedette per il dono che ci fanno, siano ascoltate nel messaggio che ci offrono sull’assoluto primato di Dio nella nostra vita: “Dio mi basta”.

Nell’ambito della preghiera si pongono la celebrazione dei sacramenti, in particolare dell’Eucaristia domenicale e del sacramento della Riconciliazione, e l’ascolto della Parola di Dio: «Non c’è dubbio che questo primato della santità e della preghiera non è concepibile che a partire da un rinnovato ascolto della Parola di DioIn particolare è necessario che l’ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina, che fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta, plasma l’esistenza» (n. 39).

Ma non possiamo fermarci alla preghiera, ai sacramenti e all’ascolto della Parola, perché queste realtà ci sospingono a vivere “secondo lo Spirito”, ossia nella carità di Gesù Cristo, che si fa dedizione di se stessi, servizio umile e disinteressato, aiuto concreto a chi è nel bisogno. Ci ricorda il Papa: «Tante cose, anche nel nuovo secolo, saranno necessarie per il cammino storico della Chiesa; ma se mancherà la carità (agape), tutto sarà inutile… La carità è davvero il ‘cuore’ della Chiesa» (Novo millennio ineunte, n. 42).

Come si vede, la formazione alla fede, proprio perché conduce il discepolo ad una progressiva comunione di vita con Gesù Cristo, lo rende sempre più consapevole e responsabile nel partecipare alla sua missione di salvezza. Tale formazione è ordinata a rendere il credente “servo della Parola” nell’intimità di amore con Cristo, la Parola fatta carne, e nel dinamismo missionario dell’annuncio del Vangelo, della Parola che libera e salva.

  1. Da tutto quanto precede emerge il primato della grazia. E’ questo un punto essenziale per la formazione alla fede, ma ancor più per la stessa vita cristiana nel suo dinamismo di santità e di missionarietà evangelizzatrice. La vigile memoria di questo primato ci preserva e ci libera dalla stoltezza dell’orgoglio per i successi e dall’amarezza della delusione per le sconfitte. Il Papa, sempre nella sua lettera Novo millennio ineunte, ci ammonisce: «C’è una tentazione che da sempre insidia ogni cammino spirituale e la stessa azione pastorale: quella di pensare che i risultati dipendono dalla nostra capacità di fare e di programmare. Certo, Iddio ci chiede una reale collaborazione alla sua grazia, e dunque ci invita ad investire, nel nostro servizio alla causa del Regno, tutte le nostre risorse di intelligenza e di operatività. Ma guai a dimenticare che ‘senza Cristo non possiamo far nulla’ (cfr. Giovanni 15, 5)» (n. 38).

La fede “pensata”

  1. La formazione alla fede, o discepolato cristiano, comporta non solo l’adesione crescente a Cristo, ma anche una specifica attenzione allacultura“, cioè alla mentalità e al costume, più radicalmente ai criteri di giudizio e di decisione che troviamo nella nostra società e, in concreto, nei messaggi veicolati dai mezzi della comunicazione sociale e presenti nei nostri ambienti di vita.

In realtà, è la stessa fede cristiana a donare ai credenti nuovi e originali criteri per la lettura dei più diversi problemi umani e per la risposta che ad essi è da dare. «Noi – scrive in modo incisivo l’apostolo Paolo – abbiamo il pensiero di Cristo» (1Corinzi 2, 16). E ancora: i credenti sono “luce nel Signore” e devono “comportarsi come i figli della luce” e “non partecipare alle opere infruttuose delle tenebre” (Efesini 5, 8-11).

È questa la sfida della cosiddetta inculturazione della fede, ossia del dialogo che la fede cristiana è chiamata ad avere con la cultura o le culture in atto nella società. Riascoltiamo alcune importanti affermazioni di Paolo VI: «Evangelizzare, per la Chiesa, è portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità e, col suo influsso, trasformare dal di dentro, rendendo nuova l’umanità stessa… Strati dell’umanità che si trasformano: per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza… Occorre evangelizzare la cultura e le culture dell’uomo…, partendo sempre dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio… La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre» (Evangelii nuntiandi, nn. 18-20).

Superare la rottura tra Vangelo e cultura è possibile con la forza della fede e insieme della ragione umana. Occorre, dunque, una fede “pensata”, un’adesione d’amore a Gesù Cristo che comporta anche un fiducioso e impegnato ricorso alla luce della ragione umana per comprendere e spiegare – a sé e agli altri – i problemi che investono i più diversi ambiti della vita, dalla bioetica alla famiglia, dall’economia alla politica, dalla comunicazione alla cultura, ecc. Più radicalmente, occorre possedere un’antropologia e un’etica (una visione dell’essere e del dover essere della persona umana) che si fondano solidamente su di una razionalità matura e capace di dialogo con le più varie e contrastanti visioni dell’uomo oggi presenti nella nostra complessa società.

  1. Oggi non basta certo “diffonderela parola salvifica del Vangelo nella sua interezza e con tutte le sue conseguenze. E’ urgente e necessario saperla anchedifendere“, mostrandone la verità, la bontà e la bellezza; illustrandola e spiegandola in modo argomentato e puntuale; rispondendo con convinzione e portando adeguate motivazioni alle obiezioni che le vengono più o meno esplicitamente rivolte; confrontandosi criticamente e senza complessi di inferiorità con quanto va sempre più emergendo nella mentalità corrente. Lo richiede il tempo in cui viviamo; lo reclamano i sacramenti del Battesimo e della Cresima che ci abilitano e ci invitano alla maturità della fede e della testimonianza; lo esige la fede stessa con la sua pretesa – fondata sul riconoscimento di Gesù come Signore della storia e Salvatore di tutti gli uomini e di tutto l’uomo – di dire una parola illuminante e risolutiva su ogni aspetto e su ogni questione della vita e della storia.

Possiamo ora comprendere come la fede “pensata” non sia un qualcosa da riservare a pochi cristiani particolarmente colti. E’ piuttosto un’esigenza interna alla fede e ineliminabile da essa, dal momento che – come dice sant’Agostino nella lettera 120 – la fede progredisce verso il conoscere e la conoscenza progredisce verso la fede (Ergo intellige ut credas, crede ut intelligas). E, insieme, è una condizione indispensabile per la missione evangelizzatrice della Chiesa e del cristiano. Come scrive il Papa: «Per l’efficacia della testimonianza cristiana, specie in questi ambiti delicati e controversi (i problemi cioè legati all’antropologia e all’etica), è importante fare un grande sforzo per spiegare adeguatamente i motivi della posizione della Chiesa, sottolineando soprattutto che non si tratta di imporre ai non credenti una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i valori radicati nella natura stessa dell’essere umano. La carità si farà allora necessariamente servizio alla cultura, alla politica, all’economia, alla famiglia, perché dappertutto vengano rispettati i principi fondamentali dai quali dipende il destino dell’essere umano e il futuro della civiltà» (Novo millennio ineunte, 51).

  1. Dobbiamo riconoscere qui un punto debole del nostro impegno pastorale. Ma forse – in termini ancora più preoccupanti – dobbiamo riconoscere che in non pochi cristiani manca o comunque è insufficiente la consapevolezza del valore della cultura, sia in se stessa sia in specifico rapporto con la fede cristiana e l’annuncio del Vangelo. Infatti, la formazione alla stessa fede deve dirsi, non solo incompleta, ma anche “disincarnata” se non conduce a una formazione alla fede “pensata”.

E come la fede chiede al credente un cammino formativo ininterrotto, così anche la fede “pensata” chiede di essere continuo oggetto di riflessione approfondita e di coraggioso confronto: chiede cioè di essere costantemente formata ed educata, tanto più che nei diversi ambienti di vita registriamo le più disparate e persino contraddittorie visioni dell’uomo.

Se questo è un dovere per tutti i credenti, lo è in modo speciale per coloro che, come docenti e come studenti, sono impegnati nell’ambito della scuola, dell’università e della cultura: qui, infatti, le esigenze di razionalità e di scientificità nello studio, nella ricerca e nell’insegnamento chiedono come necessari il confronto e il dialogo tra il Vangelo e la cultura, tra la fede e la scienza, tra la “stoltezza della Croce” e la “sapienza degli uomini”.

Appare qui, ancora una volta, l’importanza per la missione evangelizzatrice della Chiesa del ruolo dei laici cristiani impegnati nei diversi ambienti di vita professionale e sociale, e insieme la necessità che questi stessi laici conoscano e approfondiscano la dottrina sociale della Chiesa.

Gli Atti degli Apostoli: il libro della formazione alla missionarietà

  1. La formazione alla missionarietà, nel senso ora detto, solleva immediatamente il problema dei formatori, dei soggetti protagonisti della formazione alla fede e alla fede “pensata”. E’ in questione il mistero e il ministero della Chiesa maestra e madre, di cui – a titoli e in forme diversi – sono partecipi tutti i suoi membri: sacerdoti e diaconi, persone consacrate, laici cristiani.

Vorrei ricordare, in particolare, la grazia e la responsabilità che i sacerdoti ricevono dal sacramento dell’Ordine a riguardo della formazione alla fede dei fedeli loro affidati. E’ vero che i sacerdoti possono e devono avvalersi anche della collaborazione dei laici nell’esercizio del loro variegato ministero: catechisti, genitori, educatori, ecc. Ma è altrettanto vero, sia che questi stessi laici hanno bisogno di essere formati adeguatamente per vivere la loro collaborazione e corresponsabilità nella Chiesa, sia che ci sono contenuti specifici e momenti particolari per i quali il ministero dei presbiteri nell’annuncio della Parola e nell’educazione alla fede non può essere delegato ad altri. Come avvenne nella Chiesa primitiva, a loro è chiesto di non tralasciare mai il ministero della Parola e di dedicarvisi con particolare cura (cfr. Atti 6, 1-6).

Ai sacerdoti chiedo, quindi, di conservare limpida e forte la coscienza del primato e dell’urgenza del ministerium Verbi (ministero della Parola) che il Signore loro affida. Come l’apostolo Paolo possano anch’essi veramente affermare: «Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il Vangelo… Guai a me, se non predicassi il Vangelo!» (1 Corinzi 1,17; 9, 16).

Tutti gli educatori alla fede poi non possono dimenticare che il mistero e il ministero della Chiesa maestra e madre sono intimamente collegati, anzi derivati dal mistero e dal ministero della Chiesa discepola e Sposa di Cristo: la Chiesa, infatti, è e può essere davvero maestra e madre se e nella misura in cui si riconosce totalmente relativa a Cristo e dipendente da lui, facendosi sua umile e gioiosa discepola e rimanendo a lui intimamente e amorevolmente legata come Sposa fedele. Ne segue che i sacerdoti, i diaconi, le persone consacrate, i laici sono autentici evangelizzatori se si lasciano continuamente evangelizzare: essi sono veri ed efficaci educatori solo se e nella misura in cui si lasciano educare e si autoeducano, dando spazio alla “formazione permanente”. Com’è eloquente e penetrante al riguardo il richiamo di sant’Ambrogio: «Chi ha perduto il grido del cuore, ha perduto anche quello della voce»!

  1. Per dare spazio concreto a questa esigenza, a partire dall’anno pastorale in corso proponiamo a tutti un itinerario formativo diocesano sulla missionarietà con lo studio degli Atti degli Apostoli.

Una simile iniziativa ci viene almeno implicitamente suggerita, anzi riceve un avvallo autorevole dal Papa stesso, che così scrive: «Occorre riaccendere in noi lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dall’ardore della predicazione apostolica seguita alla Pentecoste… Il mandato missionario ci introduce nel terzo millennio invitandoci allo stesso entusiasmo che fu proprio dei cristiani della prima ora: possiamo contare sulla forza dello stesso Spirito, che fu effuso a Pentecoste e ci spinge oggi a ripartire sorretti dalla speranza ‘che non delude’ (Romani 5, 5)» (Novo millennio ineunte, nn. 40. 58).

Come accostare il libro degli Atti degli Apostoli? Proprio perché l’intento specifico è quello della formazione alla missionarietà, il libro di Luca verrà presentato e utilizzato secondo la modalità che ha caratterizzato l’iniziativa diocesana “Il Vangelo sia con te”. La Parola di Dio sarà, dunque, accostata nella sua molteplice e straordinaria ricchezza: di annuncio e di accoglienza della verità cristiana (fede), di dialogo con Dio che ci parla e ci incontra (preghiera), di proposta di un nuovo stile di vita (morale cristiana), di chiamata all’azione apostolica e missionaria nella Chiesa e nel mondo (missionarietà).

Per i contenuti più precisi e le singole tappe di sviluppo di questo itinerario formativo diocesano, offerto in modo immediato alle comunità parrocchiali e vicariali, rimandiamo al “Sussidio” dal titolo omonimo a questa lettera: “Chiesa di Genova, prendi il largo”. Il Sussidio appositamente preparato è già da ora disponibile.

Confido che l’impegno di tutti nell’accogliere con cordialità questa importante iniziativa e nel viverla con generosità possa portare il suo frutto prezioso, quello stesso che il Papa auspica per quanti si lasciano appassionare dalla predicazione degli Apostoli dopo l’evento della Pentecoste: «Questa passione non mancherà di suscitare nella Chiesa una nuova missionarietà, che non potrà essere demandata ad una porzione di ‘specialisti’, ma dovrà coinvolgere la responsabilità di tutti i membri del Popolo di Dio. Chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve annunciarlo» (Novo millennio ineunte, n.40).

Conclusione

SULLA TUA PAROLA GETTERO’ LE RETI

            Duc in altum! Prendi il largo! E’ l’invito di Gesù a Simon Pietro, che gli risponde fiducioso: “Sulla tua parola getterò le reti”.

Al termine del Giubileo e all’alba del nuovo millennio il Papa Giovanni Paolo II si inserisce, rivivendolo in modo personale e profondo, in questo evento evangelico e trascina con sé l’intera Chiesa, invitandola a riprendere la sua navigazione nel mare della storia al soffio suadente e potente di quella parola: Duc in altum!

            Come stimolo a seguire senza paura la “rotta”, che questa lettera traccia indicando il percorso spirituale e pastorale della nostra Chiesa di Genova, vogliamo noi pure rivivere l’evento di grazia narrato dall’evangelista con il fatto della pesca miracolosa (Luca 5, 1-11).

La “conclusione” della presente mia lettera vuole essere una breve traccia di Lectio divina, che spero possa servire per incontri spirituali di preti e di laici, per riunioni di gruppi e di associazioni ecclesiali, per incontri formativi dei membri dei Consigli pastorali parrocchiali e vicariali. La meditazione della Parola di Dio aiuti tutti noi a innamorarci sempre di più della Chiesa nostra Madre e a condividerne con crescente entusiamo la passione evangelizzatrice!

  1. Ci troviamo sulle rive del lago di Genèsaret, detto anche di Tiberiade, dove Gesù viene trova attorniato dalla folla che gli fa ressa “per ascoltare la parola di Dio”. E’ costretto a salire su una delle due barche ormeggiate alla sponda – e ad essere scelta è quella di Simone – per scostarsi un poco da terra e continuare così “ad ammaestrare le folle” dalla barca come da una cattedra (il verbo usato è kathizo, da cui deriva appunto il termine cattedra) (cfr. Luca 5, 1. 3).

Gesù è il Maestro: anche per noi oggi. E’ il Maestro perché è la Parola di Dio fatta carne, la Parola che svela il mistero di Dio e dell’uomo. A noi è data la grazia di ascoltare Gesù, di essere e di diventare sempre più suoi discepoli. E’ in questo modo che la fede, accesasi nel nostro cuore di credenti, diviene luce che illumina la nostra vita e fuoco che infiamma la nostra libertà, rendendola docile e obbediente alla Parola che salva.

Annuncio e ascolto, ascolto e annuncio: sono impegni essenziali della nostra vita e della nostra missione di cristiani. E’ un annuncio che viene a noi da lontano, dallo stesso Signore Gesù, Parola vivente del Padre, e che attraverso tutta la storia e la Tradizione della Chiesa ci raggiunge e ci interpella. Da questo annuncio nasce ed è suscitato il nostro ascolto docile e obbediente di discepoli. E l’ascolto si fa appropriazione della Parola, una appropriazione così profonda e radicale che fa di noi stessi e della nostra vita un annuncio, attraverso la testimonianza e l’impegno della diffusione della Parola.

Annuncio e ascolto sono compiti che potranno essere assolti solo nella consapevolezza del primato della Parola di Dio. Vogliamo onorare questo primato con la lettura della Sacra Scrittura e in particolare del santo Vangelo, con la conoscenza della parola del Papa e dei Vescovi, con la meditazione personale o di gruppo, con la cura delle omelie e delle catechesi, con la testimonianza quotidiana della fede in ogni circostanza e in ogni ambiente di vita.

Proprio in questa direzione intendono muoversi l’itinerario formativo diocesano sulla missionarietà a partire dagli Atti degli Apostoli e il proseguimento della Lectio divina mensile in Cattedrale, proprio sullo stesso libro della Scrittura, come modello e invito ad una sua più ampia diffusione. Il Papa è esplicito: «In particolare è necessario che l’ascolto della parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina, che fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta, plasma l’esistenza» (Novo millennio ineunte, n. 39).

  1. Eccoci ora alla pesca: «Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: ‘Prendi il largo e calate le reti per la pesca’» (Luca 5, 4). Dalle parole di Gesù emerge un particolare interessante nell’uso dei verbi. Egli adopera un verbo al singolare: “prendi il largo”; e un altro verbo al plurale: “calate le reti per la pesca”. Vi è qui un’allusione alla missione evangelica e salvifica che Gesù tra poco affiderà agli apostoli: la missione è unica ed è per tutti, ma nel disegno del Signore c’è un posto specifico riservato al primo degli apostoli, a Pietro.

Questa, dunque, è la Chiesa voluta da Gesù: una comunione, entro la quale fioriscono sia la fondamentale uguaglianza nella dignità di figli di Dio e di membri del Corpo mistico di Gesù e nella partecipazione alla sua missione di salvezza, sia la varietà e complementarietà dei doni e dei carismi, tra i quali spicca il ministero di Pietro e degli Apostoli, del Papa e dei Vescovi.

Questo semplice accenno è quanto mai prezioso. Esso ci chiede di non stancarci mai nel coltivare in noi il senso della Chiesa “comunione”, segnata dall’unità della missione e dalla diversità e complementarietà dei ministeri. Non si tratta qui di ripetere per l’ennesima volta cose note, ma di “prendere il largo” nell’impegno di vivere la comunione della Chiesa e nella Chiesa. Si tratta di dare finalmente e decisamente spazio a rapporti più cordiali – sia personali che istituzionali – tra presbiteri e diaconi, persone consacrate, fedeli laici (tra queste diverse componenti del Popolo di Dio e all’interno di ciascuna di esse); tra Chiesa particolare e associazioni, movimenti e gruppi; tra comunità parrocchiali e vicariali. L’amore alla comunione ecclesiale potrà portare un’iniezione di fiducia perché anche i Consigli pastorali vicariali e parrocchiali “prendano il largo” (cfr. Arcidiocesi di Genova, Il Vicariato e il Consiglio Pastorale Vicariale, 4 marzo 2001).

  1. Il comando di Gesù Duc in altum risulta umanamente incomprensibile, specie per esperti pescatori, e non può non suscitare le immediate rimostranze di Simone: “Simone rispose: ‘Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti’. E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano” (Luca 5, 5-6).

“Sulla tua parola getterò le reti”. Sono le prime parole che Luca pone in bocca a Simone. Certo egli manifesta tutta la sua perplessità, ma riconosce personalmente che la parola di Gesù è autorevole. Egli è il maestro e di lui si può fidare. E la fiducia genera amore e l’amore sfocia nel coraggio della decisione. Così, dal crescente rapporto personale di Simone con il Signore, scaturiscono  la forza  e l’entusiasmo per operare scelte nuove e sorprendenti. La fiducia incondizionata – e dunque la fede – di Simone nella parola potente del Signore non viene delusa, perché fruttifica in “una quantità enorme di pesci”.

Quanto abbiamo bisogno tutti di una simile fiducia! Sempre, ma soprattutto nei momenti delle difficoltà e degli insuccessi, della fatica e della delusione, della stanchezza e della paura. Ma questi sono anche momenti “provvidenziali”, perché ci stimolano a non dimenticare mai il primato di Cristo e della santità, il primato della grazia e l’assoluta necessità della preghiera. Riascoltiamo di nuovo una parola del Santo Padre: «Quando questo principio (il primato di Cristo e della santità) non è rispettato, c’è da meravigliarsi se i progetti pastorali vanno incontro al fallimento e lasciano nell’animo un avvilente senso di frustrazione? Facciamo allora l’esperienza dei discepoli nell’episodio evangelico della pesca miracolosa: ‘Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla’ (Luca 5, 5). E’ quello il momento della fede, della preghiera, del dialogo con Dio, per aprire il cuore all’onda della grazia e consentire alla parola di Cristo di passare attraverso di noi con tutta la sua potenza: Duc in altum! Fu Pietro, in quella pesca, a dire la parola della fede: ‘Sulla tua parola getterò le reti’ (ibid.) … Consentite al Successore di Pietro, in questo inizio di millennio, di invitare tutta la Chiesa a questo atto di fede, che s’esprime in un rinnovato impegno di preghiera” (n. 38).

  1. Siamo ora all’incontro decisivo con Cristo: è questo il cuore della vita cristiana e il principio dell’affidamento della sua stessa missione evangelizzatrice alla Chiesa intera e a ciascuno di noi.

Per Simone e per i suoi compagni, infatti, la pesca straordinariamente abbondante in pieno giorno e i particolari delle reti che quasi si rompono e delle barche che quasi affondano per la grande quantità di pesci sono una vera e propria “rivelazione”. L’evangelista scrive: “Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: ‘Signore, allontanati da me che sono un peccatore’. Grande stupore infatti aveva preso lui e tutti quelli che erano insieme con lui per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone” (Luca 5, 8-10).

Simone, con l’aggiunta singolare del soprannome “Pietro”, riconosce nel “Maestro”, che gli ha impartito quell’ordine così strano, il “Signore”. Nello stesso tempo egli percepisce sino in fondo e confessa apertamente tutta la sua lontananza e indegnità: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore”. Possiamo dire di trovarci di fronte ad una confessione di fede che, in un certo senso, costituisce un’anticipazione di quella decisiva confessione che avrà luogo a Cesarea di Filippo: “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente” (Matteo 16, 16).

Quella di Simon Pietro è una fede, rileva immediatamente l’evangelista, che si esprime anche con l’inginocchiarsi e dunque con l’“adorazione” e che si mescola a un “grande stupore”. Non è difficile ritrovare qui, per noi, l’appassionato invito del Papa alla contemplazione del volto di Cristo mediante il dono divino della fede: “alla contemplazione piena del volto del Signore – scrive nella lettera Novo millennio ineunte – non arriviamo con le sole nostre forze, ma lasciandoci prendere per mano dalla grazia. Solo l’esperienza del silenzio e della preghiera offre l’orizzonte adeguato in cui può maturare e svilupparsi la conoscenza più vera, aderente e coerente, di quel mistero, che ha la sua espressione culminante nella solenne proclamazione dell’evangelista Giovanni: ‘E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità’ (Giovanni 1, 14)» (n. 20).

Come abbiamo rilevato in questa nostra lettera, la contemplazione di Cristo non è privilegio di qualche anima eccezionale, ma è dono e compito per tutti i cristiani; è – dicevamo – la sintesi dell’esistenza cristiana, la radice e il frutto della missionarietà: “non c’è contemplazione senza missionarietà, così come non c’è missionarietà senza contemplazione”.

  1. Siamo alla scena finale della chiamata all’apostolato, alla missionarietà, all’annuncio del Vangelo: “Gesù disse a Simone: ‘Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini’. Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono” (Luca 5, 10-11).

Simon Pietro aveva detto: “Allontanati da me”. Gesù invece gli si avvicina, supera la distanza, lo incoraggia e gli apre un nuovo futuro, affidandogli una nuova missione, con la quale lo associa alla sua stessa missione: fino a quel momento Simone aveva catturato i pesci nel lago con la rete, d’ora in poi dovrà catturare gli uomini per il Regno di Dio utilizzando la rete della Parola. Così, la parola di Gesù, che un momento prima aveva operato il miracolo della pesca fortunata, ora cambia la vita e il destino di Pietro: catturato da Cristo, Pietro potrà catturare; evangelizzato da Cristo, potrà evangelizzare gli altri, condividendo la missione stessa di Gesù. Ma il Signore chiama tutti: tutti sono chiamati e mandati. Infatti, la missione di Pietro è anche la missione degli altri apostoli e, in forme diverse, è pure la missione di tutti i discepoli di Gesù: la nostra! Sì, siamo chiamati e mandati come annunciatori della Parola che salva, annunciatori della persona viva di Gesù, redentore dell’uomo e salvatore del mondo.

Sento qui vivissima la mia responsabilità di Pastore di attirare l’attenzione di tutti i fedeli – a cominciare dai sacerdoti e dalle persone consacrate – sul delicatissimo problema pastorale delle vocazioni sacerdotali e religiose. Lo scorso anno ho presentato alla Chiesa di Genova nella lettera “Alzati e cammina” una serie di riflessioni e di indicazioni operative (cfr. nn. 23-29). Mi sento ora non solo di ripeterle ma anche di rilevarne, con la loro crescente gravità, l’urgenza di concretizzarle più coraggiosamente e da parte di tutti nella preghiera, nell’opera educativa e nell’azione di ciascuna delle nostre comunità cristiane. Da parte mia continuerò a partecipare, ogni mese, alla solenne adorazione eucaristica in Cattedrale per implorare il dono dei futuri “ministri dell’altare”, fiducioso in una presenza più numerosa di sacerdoti, diaconi, persone consacrate e fedeli laici.

La proposta di essere “pescatore di uomini” è il secondo comando che Simon Pietro riceve in quel giorno ed è umanamente ancora più impegnativo del primo. Ma anche questa volta Simone e i suoi compagni, ormai pienamente coinvolti con lui,  non hanno dubbi e con prontezza “tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”.

Alla chiamata segue la risposta, ossia la sequela Christi. Ed è un seguire il Maestro nel segno della radicalità: rispetto agli altri evangelisti, è proprio Luca a sottolineare questo “tutto” che viene abbandonato, perché il fascino di Cristo ha completamente conquistato Simone e i suoi compagni. Una conquista, questa, che cambia alle radici la loro vita e il loro destino. Ed è destinata a cambiare anche la nostra vita e il nostro destino.

Lasciamoci affascinare da Cristo: solo così potremo accogliere con fiducia piena e con coraggio indomito il suo Duc in altum. Ed anche per noi potrà compiersi il “miracolo” di salpare senza paura, di prendere il largo, di non temere la notte infruttuosa, di non ammainare le vele ma di riprendere con entusiasmo la pesca, di inginocchiarci e di confessare la nostra miseria e insieme l’onnipotenza divina di Cristo, di lasciare tutto e di seguire il vero grande unico “Pescatore degli uomini”, di condividere con lui la gioia di salvare gli uomini dalla morte e di ricondurli alla vita.

  1. Ora, in comunione con Maria, che insieme agli apostoli invoca lo Spirito Santo (cfr. Atti 1, 14), e in sintonia con il Santo Padre che ripete la parola di Gesù “prendi il largo”, sigillare questa mia lettera con lo stesso mandato missionario che ho dato in Cattedrale ai partecipanti al Convegno diocesano dello scorso maggio. Lo do nuovamente, estendendolo a tutti i membri della Chiesa di Dio che è in Genova e a ciascuno di essi.

In realtà, questo “mio” mandato è solo un’eco fedele e sensibilmente percepibile di un mandato che risuona nell’essere stesso e nella coscienza di ogni cristiano. A farlo risuonare con forza e con soavità è lo Spirito di Gesù risorto che come vento impetuoso scuote l’essere di ogni discepolo di Gesù e come fuoco ardente ne infiamma l’agire, perché vada in tutto il mondo e predichi il vangelo ad ogni creatura (cfr. Marco 16, 15).

Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi:

Andate, annunciate il Vangelo dell’amore

con fedeltà e coraggio

offrendo acqua all’assetato, luce al cieco,

pane e conforto all’abbandonato, accoglienza all’escluso.

Annunciatelo come Bella Notizia agli uomini

di ogni tempo e cultura, in ogni ambiente!

 

Andate, annunciate il Vangelo della vita

            come risuonò al principio,

perchè ogni uomo si senta

cercato e amato come figlio,

perdonato senza riserve

e destinato alla vita piena.

Andate. Ecco, Io sono con voi tutti i giorni!

 

Andate, annunciate a tutti il Vangelo della speranza:

sulle vostre labbra sia forte la parola,

nei vostri occhi brilli la luce della gioia.

Narrate sui crocicchi del cuore

che non è esaurita la Misericordia del Signore.

Ricevete lo Spirito Santo e andate.

            Ogni ambiente di vita è il luogo della Salvezza!      

 

Annunceremo il tuo Regno, Signore,

il tuo Regno, Signore, il tuo Regno!

 

 

                                                                                   + Dionigi Card. Tettamanzi

                                                                                        Arcivescovo di Genova

 

Genova, 29 agosto 2001

Solennità della Beata Vergine Maria “della Guardia”

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