Cercivento (Udine)
“Il contributo di ogni credente per la costruzione di vie di riconciliazione”
Cari Amici, sono lieto di partecipare a questo incontro e ringrazio per il gentile invito. Un saluto fraterno al Vescovo di Udine, S.E. Mons. Mazzocato, al quale rinnovo la mia stima e cordiale amicizia.
Il tema è particolarmente delicato e attuale: va oltre il grande bene della pace e centra il cuore della riconciliazione. La pace, infatti, non è solo assenza di guerra armata, ma nasce da cuori pacificati, cioè sanati dalle ferite antiche e recenti, e riconciliati con se stessi e con altri.
I conflitti, infatti, non sono solamente esteriori ma covano anche dentro di noi, vanno a segnare ricordi, acuire sensibilità, suggeriscono propositi di rivalsa che esplodono alla prima occasione vera o pretestuosa. La storia insegna.
Inoltre, il titolo tematizza la responsabilità dei credenti, di ogni credente: preciso che, in questo contesto, mi riferirò non all’uomo religioso in generale, bensì al cristiano. Il titolo, infine, ci dispensa giustamente dalle situazioni in atto, poiché non sarebbe questa la sede né mia competenza esprimere valutazioni di merito.
- La forza della preghiera
Dentro a questo perimetro, che cosa possiamo dire, oltre che la pace è un bene che tutti gli uomini desiderano, e devono desiderare e praticare? Tutti abbiamo nel cuore una risposta chiara e convinta, che sappiamo possibile e doverosa: pregare il Principe della pace perché illumini le menti e parli ai cuori, affinché si deponga la forza delle armi e si creda alla verità della parola e ai sentimenti profondi di genitori e figli, di giovani e anziani, di città e villaggi, di povertà sempre più devastate, di futuri incerti e oscuri. Ma innanzitutto dobbiamo pregare perché noi siamo riconciliati con Dio che ci fa confessare le nostre colpe e omissioni, e ci fa riconoscere negli altri delle creature redente, dei figli del Padre celeste, e quindi dei fratelli in Cristo.
Ma oltre la preghiera personale e comunitaria, c’è qualcos’altro che possiamo fare come credenti?
- Ricuperare l’umano
Sembra che l’umano si stia ritirando dal mondo: crede di esserci e di essere il centro e la misura dell’universo, ma in realtà la cultura è sottomessa al potere, le menti non pensano in modo critico, sono spesso eterodirette illudendosi di essere libere. La velocità, ad esempio, è oggi segno di efficienza. e sempre più diventa criterio di valore, così come l’utile e il comodo sono crinale di moralità.
Il nostro tempo parla molto di dignità umana, ne scrive nelle Carte internazionali, ma non dichiara il fondamento di tale dignità che è la base di ogni diritto e legislazione. Spesso oggi si usano parole fondamentali e universali – come ragione, libertà e natura, amore e vita…- dando per scontato il significato. Sorge però il dubbio che sia un metodo voluto per lasciare le cose nell’indefinito, e così creare confusione sule loro derivate quali persona e anima, famiglia, società e diritto naturale…
La giustizia è il fine dell’azione politica, e consiste nel riconoscere ciò che spetta all’essere umano, essendo egli “diritto sussistente” come scriveva Antonio Rosmini. La prima conseguenza è che l’uomo ha un valore incondizionato e nessuno, pertanto, può concepire gli altri e disporne come mezzi per affermare se stesso o una ’ideologia. Il centro e il cuore dello Stato è dunque la persona che mai può essere mercificata, neppure nei conflitti fra Etnie, Nazioni, Stati o Continenti.
- Tornare alla coscienza
Dobbiamo tornare alla coscienza! Il mondo occidentale è lanciato nel progresso tecnologico e scientifico, ma sta perdendo la coscienza, cioè la capacità di distinguere il bene dal male. Esso rifiuta il limite di se stesso e di ciò che può fare con la sua intelligenza, Ma se non entra in campo la coscienza, anche gli accordi e i trattati sono insufficienti perché non affidabili: “pacta sunt servanda”!
La giustizia, scopo dell’azione politica, richiede consapevolezza intellettuale e onestà morale, altrimenti non riesce neppure a riconoscere i problemi – compreso quello della pace – e tanto meno riesce a trovare le vie di soluzione e di costruzione.
Ciò vale tanto per la coscienza personale quanto per quella collettiva di un popolo e di una Nazione. Sono infatti – la coscienza del singolo e quella dello Stato – realtà distinte ma non separate, si richiamano e si sostengono a vicenda. Per tale motivo, l’individuo non può disinteressarsi della società, dello Stato che ne è la forma giuridica, della cultura che si respira. Dire che, nell’acqua inquinata ognuno liberamente si destreggia e fa le sue scelte, è qualunquismo o malafede: o non si rende conto dei condizionamenti esterni sulla libertà, oppure capisce ma non vuole scomodarsi a partecipare al pubblico agone. In un caso o nell’altro, ricordiamo che i giovani sono le vittime più esposte, e con loro il futuro di cui sono protagonisti.
È evidente infatti che lo Stato, con la sua legislazione. forma o deforma le coscienze: è troppo facile ritenere che sia giusto, e quindi moralmente possibile, ciò che è stabilito legalmente. In questo dinamismo, anche la storia del secolo scorso ha mostrato che la coscienza personale non può rimanere schiacciata o ingannata per sempre: prima o poi si risveglia. Reagisce e ribalta sia i regimi totalitari che le ideologie aberranti.
Ciò sta accadendo anche oggi: è l’inizio di un lento ma inarrestabile risveglio. Per questo ogni credente deve osservare con spirito critico non solo la cronaca che viene rappresentata, ma soprattutto i criteri di pensiero che presiedono i fatti e i problemi, i valori o i disvalori che si applicano e si vogliono insinuare nella coscienza di ognuno, specialmente se giovane. Oggi la coscienza critica è debole perché non curata o deformata in modo subdolo e suadente. La civiltà del mercato e del consumo riempie di cose per impedire di pensare e di giudicare ciò che deve essere giudicato, sapendo che il giudizio, quando è intelligente e onesto, è un grande atto d’amore per tutti: non affonda ma eleva. E’ una forma irrinunciabile di partecipazione alla vita sociale.
- Discepoli di Cristo
Ricuperare l’umano e tornare alla coscienza è compito di ogni uomo pensoso. Nessuno dovrebbe misurare la distanza geografica dei conflitti per sentirsi coinvolto o meno dal dramma. Ciò non vuol dire dover vivere in una continua paura, ma essere responsabile davanti alla propria umanità e alla fede cristiana. In particolare i credenti, come gli Apostoli, non possono tacere di fronte all’ appello della pace mancata, né sfuggire al dono della fede. Essa è tesoro da custodire e da condividere con tutti, non in nome di un indefinito “proselitismo”, bensì in nome dell’amore per Dio, per gli altri e per il mondo. Per fede, infatti, sappiamo che ognuno porta in sé il sigillo del Verbo fatto carne e che – come scrive un ebreo storico della filosofia, Karl Lovith – “… l’uomo ha ritrovato attraverso l’Uomo-Dio, Cristo, la sua posizione davanti a sé e al prossimo. La sola immagine che fa l’homo del mondo europeo un uomo, è sostanzialmente determinata dall’idea che il cristiano ha di sé, quale immagine di Dio” (Da Hegel a Nietzsche).
Questa consapevolezza va oltre la comune appartenenza al genere umano, fonda un legame invisibile e soprannaturale che supera ogni altra appartenenza di razza, di cultura, di storia. Il cristiano sa bene che la pace non richiede l’omologazione forzata di nessun tipo, ma il riconoscimento e il rispetto di essere creature di Dio, redente dalla croce di Cristo, chiamate all’incontro esplicito con Lui. Questa visione – che non è una sapienza umana ma evangelica – cambia il modo di pensare e di agire in mezzo alle difficoltà della storia e all’universale fragilità del peccato.
La fede ci rende artefici di pace là dove siamo e secondo i compiti che abbiamo; questa prospettiva deve ispirare ogni comportamento nel segno della comunione, del perdono, della riconciliazione, della carità evangelica. Questa non è fare il bene, ma è lasciare che Cristo faccia il bene attraverso di noi, come ricorda l’Apostolo Paolo (1 Cor 13). Essere costruttori di pace in famiglia, nella comunità cristiana, nel lavoro, nella società, significa costruire la tela della pace sulla terra.
Là dove i popoli purtroppo portano ancora il giogo del conflitto e la pace appare un sogno lontano, deve scattare la molla dell’aiuto reciproco tra famiglie, bisogna creare reti di famiglie che, insieme, possono essere piccole zattere di preghiera, conforto e sostegno nella sofferenza e nella preghiera, per non soccombere alla violenza delle armi e della disperazione. Chi meglio della famiglia conosce gli orrori della guerra? I legami di affetto non rendono forse ancora più acute le ansie e le paure? Ma nello stesso tempo non sono forse il luogo naturale della resistenza e della vicinanza, lo spazio della condivisione del poco che resta e della speranza per credere nel domani? E quando questo avviene – come è accaduto nella storia recente – la condivisione tra persone e famiglie che si trovano su fronti opposti, non è forse un inizio di mutua comprensione e di interiore riconciliazione? Voglio pensare che le famiglie, proprio per gli orrori della guerra, possano essere un luogo di rinascita della pace, testimonianza d’amore in mezzo alle macerie umane e sociali.
In questa prospettiva, mi chiedo se – a livello di popoli in guerra o in pace che siano – non sia possibile una incisiva e ricorrente pressione popolare sulla politica dei rispettivi Paesi, affinché la volontà di vivere in pace sia dichiarata in modo pacifico e pubblico. Oltre a confermare ai decisori di ogni livello la direzione del consenso popolare, potrebbe essere un forte stimolo all’impegno decisivo della Diplomazia, che ha come compito peculiare quello di prevenire i problemi e risolverli per via di dialogo nell’interesse della gente e quindi del Paese. Questa ricorrente pressione non potrebbe essere anche un segno forte per la sensibilità dei mercati, i cui interessi palesi o mascherati non di rado dettano l’agenda globale, riscrivono la geopolitica, condizionano i governi?
Se i cristiani devono essere sale e lievito della storia, luce e città posta sul monte non per farsi vedere ma per servire, allora il fronte della riconciliazione e della pace, della giustizia e dell’amore, è un imperativo della fede a cui non possiamo sottrarci. Forse non riusciremo a fermare subito i massacri, ma non staremo a guardare: avremo fatto sentire la voce del Principe della pace. La sua non è un’invocazione scontata o un’a pia esortazione: e una voce che ispira il modo di pensare e di agire, quindi cambia la vita dei singoli e dei popoli. Il cristiani hanno l’onore e il dovere di rendere manifesta la voce di Gesù, affinché il mondo creda e sia salvo.
Card. Angelo Bagnasco
Arcivescovo emerito di Genova