Catechesi per il Ritiro spirituale del Clero per il tempo di Quaresima

Catechesi tenuta in Cattedrale per il Ritiro spirituale del Clero per il tempo di Quaresima

Santa Quaresima a tutti voi! Siamo al secondo appuntamento del nostro cammino: dopo il ritiro di Avvento in cui mi sono soffermato sulla fraternità presbiterale, oggi vorrei condividere qualche riflessione sulla paternità spirituale del presbitero. Sono due tematiche che fin dall’inizio del mio ministero in questa Chiesa ho cercato di tenere presente e di condividere. Ringrazio padre Amedeo Cencini per la bella riflessione che ci ha regalato qualche giorno fa. In modo particolare mi hanno colpito le due certezze di cui parlava: essere stato amato da sempre e per sempre; essere capaci di amare e di essere chiamati a generare. Queste due certezze sono alla base del nostro essere padre e della fatica che può nascere se non sono chiare e non sono fatte nostre.

Vorrei iniziare leggendovi una preghiera che ho trovato nella lettera apostolica Patris corde di Papa Francesco:

«Tutti i giorni, da più di quarant’anni, dopo le Lodi, recito una preghiera a San Giuseppe tratta da un libro francese di devozioni dell’Ottocento, della Congregazione delle Religiose di Gesù e Maria, che esprime devozione, fiducia e una certa sfida a San Giuseppe».

«Glorioso Patriarca San Giuseppe, il cui potere sa rendere possibili le cose impossibili, vieni in mio aiuto in questi momenti di angoscia e difficoltà. Prendi sotto la tua protezione le situazioni tanto gravi e difficili che ti affido, affinché abbiano una felice soluzione. Mio amato Padre, tutta la mia fiducia è riposta in te. Che non si dica che ti abbia invocato invano, e poiché tu puoi tutto presso Gesù e Maria, mostrami che la tua bontà è grande quanto il tuo potere. Amen».

È con questa preghiera un po’ ‘sfidante’ che vorrei iniziare questa conversazione.

Partirei da un’icona biblica, Giacobbe e i suoi figli Giuseppe e gli altri fratelli (capitolo 37 della Genesi): mi colpisce perché trovano connessione le dinamiche di paternità e figliolanza che si intrecciano con quelle della fraternità.

All’inizio del capitolo emerge già un piccolo problema: Giuseppe all’età di 17 anni pascolava il gregge, era giovane e stava con i figli delle mogli di suo padre; Giuseppe quindi ha un certo ruolo di responsabilità, ma non sta con i suoi fratelli, bensì con i figli delle due serve di Giacobbe. L’ombra della divisione copre da subito questa storia. Giuseppe sceglie la strada della maldicenza, forse perché era giovane o si sentiva rifiutato; forse per un temperamento remissivo o perché voleva crescere nella stima di Giacobbe.

Giuseppe dunque si accosta al padre per sussurrargli all’orecchio voci cattive, chiacchiere malvagie e diffamatorie sul conto dei fratelli.

Tutti noi sappiamo quante quanti metodi ha la maldicenza…; mi capita di sentire in qualche conversazione “È bravo, buono, però…” Con quel però mi pare si neghi tutta la prima parte e  la fatica di mettere insieme aspetti buoni e meno buoni. Credo che sia una situazione sulla quale dobbiamo fermarci un attimo, per vivere davvero la paternità spirituale. Israele ama Giuseppe più degli altri figli, era il figlio avuto in vecchiaia… lo preferisce in quanto segno della benedizione di Dio.  Giacobbe ha una predilezione sacra, quasi divina, per un motivo in realtà molto umano. Il segno di questa predilezione è una veste diversa rispetto a quella dei fratelli, simbolo di uno statuto speciale che causa tensioni e divisioni. Giuseppe porta, infatti, le maniche lunghe che non sono da lavoro, perché si sporcano subito.

Al versetto 4 ci spostiamo dal lato dei fratelli che, vedendo che il loro padre amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano parlargli amichevolmente. Sono termini molto pesanti. L’effetto dell’amore di preferenza di Giacobbe è l’odio. La preferenza separa e divide e i fratelli non possono più neanche guardare Giuseppe: li vediamo abbassare lo sguardo quando si imbattono nel fratello minore. Se manca la parola la fraternità è rotta.

Quanto è importante stare e parlare tra di noi: quanto siamo convinti di questo?

La predilezione di Giacobbe impedisce la comunione fraterna. Giacobbe è figlio di questa dinamica malata. È Giacobbe, è Israele, che ha ricevuto da Dio una grande responsabilità ma pare non impari la lezione e perpetua così in un atteggiamento di preferenza e in una condotta inconsistente.

Siamo chiamati a fare pace con il desiderio di essere padri, presbiteri e pastori perfetti, è fonte di grande frustrazione.

La preferenza di Giacobbe è di ostacolo anche alla paternità, provoca anche la sovversione dei rapporti tra le generazioni. Per il padre questa presa di coscienza è un trauma (Genesi 37,11 I suoi fratelli perciò erano invidiosi di lui, ma suo padre tenne in mente la cosa).

I fratelli diventano anche gelosi e invidiosi, ma il sentimento del padre è più complesso: vede come sta crescendo Giuseppe, vede la reazione dei suoi fratelli e medita. La svolta comunque deve arrivare.

I fratelli lasciano Giuseppe con il padre e vanno a pascolare lontano; la famiglia diviene ora anche spazialmente divisa. Il padre compie allora un’azione decisiva: invia Giuseppe a raggiungere i fratelli. Deve accettare di separarsi dal figlio amato, perché non ci siano preferenze e divisioni e perché il gruppo dei fratelli possa formarsi nella pace. Sappiamo poi della vendita di Giuseppe, delle vicende in Egitto e del ricongiungimento finale. Giacobbe pare però che non abbia imparato molto da tutta questa vicenda, perché in Genesi 42 con Beniamino avverrà la stessa cosa.

Come padri delle comunità che ci vengono affidate siamo chiamati a dare una lettura spirituale di ciò che accade: è una grossa fatica che siamo chiamati a fare, ovvero donare spazio e tempo ad essere guide spirituali. Gli ostacoli di questo compito sono preferenza e omologazione; a me pare che se la medicina contro la preferenza sia l’omologazione, allora è un grosso problema. In questo modo, infatti, non si creano uguaglianze, ma semmai diseguaglianze

L’amore paterno autentico custodisce, promuove e valorizza le differenze che allora non ci mettono paura e non ci mandano in crisi. Spesso, infatti, non sappiamo come gestire le differenze. Avere tutti le stesse cose non è segno di giustizia; l’amore paterno sa che le differenze sono traccia dell’amore unico e irripetibile di Dio.

Pensando alla parola ‘Padre’ riferita a Dio, spesso tendiamo automaticamente a credere che il punto di partenza sia la realtà umana, di cui quella divina è un miglioramento all’ennesima potenza. Pensiamo che, a partire dalla nostra esperienza umana di paternità, possiamo farci un’idea di che cosa sia e chi sia Dio Padre. Ma Dio Padre chi è? Lo immaginiamo come il proprio padre naturale senza difetti e con le sue virtù innalzate all’ennesima potenza… generoso, laborioso, sempre pronto al perdono.

Questo modo di ragionare sembra corretto perché parte dal fatto che ci sia una vera somiglianza tra Dio Padre e i padri che sono sulla terra. Ma a me sembra non sia un modo credente, non è una lettura spirituale della situazione.

Molto chiaramente, Gesù nel suo dialogo con Nicodemo dice (Giovanni 3): Nessuno e salito in cielo se non colui che e disceso dal cielo.

San Paolo nella lettera agli Efesini (3, 14-15) scrive: Per questo motivo piego le ginocchia davanti al Padre dal quale ogni famiglia nei cieli e sulla terra prende nome.

Non si capisce la paternità di Dio a partire dall’uomo, ma è esattamente il contrario. Accogliendo Dio in Gesù Cristo si comprende la paternità dell’uomo. È una logica credente che agli occhi della mentalità comune è percepita come assurda. Solo il figlio è disceso e ha creato il ‘ponte’ tra cielo e terra. La questione della Paternità presbiterale non può avere come punto di partenza quella terrena, per quanto sublime e straordinaria.

Papa Francesco nella ‘Patris corde’ dice che San Giuseppe è l’ombra di Dio Padre, mi piace molto questa immagine.

Il termine ‘ombra’ mostra che c’è una vera relazione tra paternità di Dio e uomo, ma che non si può capire la paternità di Dio a partire dall’uomo. Se conosci la paternità di Dio, se ne hai fatto esperienza, riconosci la sua presenza sulla terra, cioè la sua ombra.

Un altro punto viene sollecitato dalle domande: “Com’è Dio in quanto Padre? Chi è Dio in quanto Padre?”. Sappiamo che la massima manifestazione di Dio Padre è la Passione del Suo Figlio nel  triduo pasquale; vediamo chi è Dio nel triduo pasquale, quando si rivela come colui che dona il Suo Figlio perchè ha fiducia negli uomini. Dio non è ingenuo, ma ha fiducia negli uomini che crede che avranno rispetto per i suoi figli.

Il Padre si rivela come colui che ha una mentalità paradossale, in quanto manda il proprio Figlio alla maniera dell’Agnello per realizzare la salvezza del mondo.

Di fronte al rifiuto degli uomini, Dio permane in un atteggiamento di dono; non li condanna, ma chiede a Suo Figlio di donarsi fino in fondo a quelle mani di quegli uomini, perché era l’unico modo per affidarsi completamene al Suo amore di Padre.

Il padre è colui che mantiene le sue promesse. Dio non è fedele ai nostri progetti, ma semmai alle sue promesse. Spesso si tende a fare i nostri progetti e poi a chiedere sopra di essi la benedizione, ma non è una buona cosa: è un progetto del Padre o è nostro?

Dio è fedele alle sue promesse, non ai nostri progetti. Egli glorifica suo Figlio sull’altare della croce rivelando il Suo volto che è solo amore e misericordia. Dalla teologia sappiamo che il Padre manifestato da Cristo non è una persona ‘assoluta’, è padre perchè ha il figlio. Non esiste un padre senza figlio e viceversa. Sono termini che indicano una mutua appartenenza. La paternità è rivelata dalla figliolanza. Sono i figli che ci fanno padri, è dall’ascolto, dalla cura e attenzione, dal nostro donarci che diventiamo padri nella fede. La paternità presbiterale non è semplicemente un dato di fatto sacramentale, non è qualcosa di concesso nell’ordinazione che c’è e basta; è affidata alla cura delle nostre relazioni pastorali affinché cresca e fruttifici nella relazione con quei figli che generiamo per grazia di Dio come Pastori della Chiesa.

È la relazione tra padre e figlio che costituisce l’identità dell’uno e dell’altro; in modo analogo la relazione pastorale vissuta con il cuore di Cristo a far sbocciare in noi la paternità presbiterale. Sono i figli che ci ha donato a costituirci pastori e padri. Non siamo veri pastori e padri finchè non impareremo a tenere conto e non svilupperemo la capacità di ascolto dei nostri fedeli, non solo aspettando ma andando in cerca.

Non si può essere pastori della Chiesa come a me viene in mente…Perché padri si diventa solo nella relazione con l’altro che è figlio. Se quello che ci caratterizza è la relazione pastorale, forse dobbiamo fermarci un attimo a riflettere su quanto coltiviamo la relazione. Un buon padre è colui che riconosce che il figlio va supportato e sostenuto perché diventi ciò che il Signore sogna per lui; in questo senso San Giuseppe è un grande compagno di cammino. In lui vediamo la realizzazione della virilità come uscita da sé affinché l’altro possa crescere e svilupparsi. La paternità matura non può usare atteggiamenti di possesso proprio perché é cura dell’altro e dono di sé: lo dice Papa Francesco nella ‘Patris Corde’.

Dice il Santo Padre: “Il donare se stesso è il modo redento in cui trasformiamo il sacrificio di noi stessi in relazione d’amore con l’altro e con gli altri; è sempre necessario in un modo o in un altro darsi e consegnarsi agli altri”.

A me pare che questo aspetto non può essere nell’ottica del sacrificio senza amore, quasi come fosse un furto pesando, ad esempio, che la gente mi privi del mio tempo o dei miei spazi. Invece la relazione pastorale con il popolo di Dio, cioè con le persone concrete, trasforma in dono il sacrificio della nostra vita. In questo senso la paternità presbiterale è casta perché non chiede per sè, ma cresce e si matura nel dono di sé.

Per essere padri dobbiamo chiedere la grazia e il regalo che Dio agisca in profondità in alcuni ambiti:

Rapporto con il dolore e le paure. Non è semplicemente un tema solo psicologico. La Vita di Antonio scritta da Atanasio di Alessandria parla proprio di questo. Antonio diventa padre quando decide di andare a vivere in una tomba e affrontare così la tentazione più grande, ovvero la paura della morte. Dopo averla superata, la gente inizia andare da lui. È un particolare straordinario, la gente capisce che può chiedere ad Antonio perché ha affrontato la paura della morte; il popolo intuisce che può essere aiutata a combattere perché lui ha combattuto in prima persona. Vorrei dire a questo proposito una cosa molto chiara: mai combattere demoni che non si sono già affrontati! Mai cimentarsi in percorsi di guarigione e combattimento spirituale con cui non si è mai avuto a che fare. Se si inizia a operare lì dove non si ha esperienza, lì si verrà provati e sconfitti. Fare disastri è all’ordine del giorno; ci si improvvisa psicologi, antropologi, sociologi, ma è la lettura spirituale l’aspetto più importante.

Tema del Potere. E’ un capitolo molto serio; Bonhoeffer ha detto: Siamo tutti piccoli potenti nel nostro piccolo mondo. Ma capita troppo spesso di sentirsi nei propri ambienti Papa, vicepapa, re o vicerè… facendo tutto ciò che sembra corretto, mettendo poi magari in difficoltà tanti uffici della curia; in questi mesi ne abbiamo affrontate un po’ di queste cose. Il problema non è di chi comanda … spesso dietro ai nostri scontenti si nasconde uno spirito di dominio frustrato; quando non sono temperante con me e non ho il dominio di me, spadroneggio sugli altri in tanti modi. Lo spirito di dominio nasce dal fatto che io avverto una realtà della mia interiorità sulla quale non ho potere e allora cerco di surrogare il controllo proiettandomi fuori. Da qui scaturisce l’abuso di potere, ma io devo sapere bene che rapporto ho con il potere. Chi ha scelto questo ministero è bene che si conosca bene, per non prendere abbagli. Può accadere in chi non si conosce che gli affetti si deformino in atteggiamenti di manipolazione

Mito della visibilità. Se vuoi rimanere padre, la carriera e la visibilità non fanno per te, i padri veri non sono mai sotto i riflettori, se uno inizia ad essere un ‘vip’ forse si sta trasformando da padre in padrino. Il nascondimento è la corona del Padre nello spirito. La parola d’ordine è scomparire, come fece San Giovanni Battista.

Obbedienza alla vita. San Giuseppe era un uomo giusto, non compromesso con la mentalità del mondo circostante; questo non gli ha impedito di essere docile alla realtà, allo scandalo apparente di una maternità misteriosa. Ha accettato la contraddizione, l’insolito, egli ha creduto alla precedenza della storia sull’idolatria del ‘dovrebbe essere così’ o del ‘e giusto fare così’… In altre parole è stato obbediente alla vita.

Accoglienza. Come poteva Giuseppe prendere con sé Maria? Ripudiarla in segreto non era possibile. Bisognava per forza andare in sinagoga e fare un atto formale: o si denunciava la fidanzata per adulterio o ci si prendeva la colpa di ciò che era accaduto. Giuseppe si è preso la colpa; per accogliere Maria Giuseppe ha perso la faccia. Accogliere non è mai un atto neutro, non si rimane puliti e con le cinture allacciate, noi vogliamo accogliere in questo modo, ma non è ciò che ha fatto San Giuseppe.

Padre è chi si assume il rischio di essere cambiato da chi bussa alla sua porta; non possiamo sempre avere cinture di sicurezza addosso, allora non è accoglienza come l’ha realizzata San Giuseppe.

Dare un nome di salvezza a ciò ci ferisce. Ministero specifico di San Giuseppe è stato quello di dare il nome; Giuseppe è chiamato a dare il nome di Gesù a un evento divino scomodo che suscita scandalo. Fare i padri nella fede significa proprio questo: aiutare a dare un nome di salvezza a ciò che scandalizza. Se io non so dare un nome a ciò che mi ferisce e scandalizza nella mia vita, è un grosso problema. Dare un nome di salvezza alle cose nitide non è difficile, basta un notaio, ma noi siamo padri!

Imparare ad essere padri. Ascoltando il nostro popolo e le persone che sono accanto a noi, specie quelle che sono contro di noi o contrarie alle nostre vedute, o magari contro di noi e alle nostre idee. Mi fa male pensare che in qualche comunità c’è qualcuno che è contro il parroco … e si fa fatica a trovare una strada. Ma è questo essere padri? Se è vero che nella relazione pastorale si sviluppa e cresce la paternità, allora non possiamo non prendere sul serio il magistero che il nostro popolo esercita su di noi, un magistero figliale che risveglia in noi la paternità. Una paternità che non cerca di portare avanti i propri obiettivi, è in ascolto dello Spirito e del popolo per condurre i singoli e la comunità secondo il piano di Dio. Il piano di Dio non lo si può conoscere individualmente, neanche dal Vescovo, è una legge base del discernimento spirituale. Senza l’ascolto di chi è coinvolto nel medesimo discernimento non si accede alla volontà di Dio.

Leggere sotto la superficie delle parole e dei fatti. Tutti sappiamo che Gesù è morto come uno dei tanti condannati della storia dal punto di vista esterno, così come sappiamo che Israele è fuggito dall’Egitto come una delle tante migrazioni; eppure la fede ci rivela che l’uno e l’altro evento era ben altro sotto la superficie delle apparenze. Sono interventi della liberazione di Dio nei confronti dell’umanità. Il padre è colui che, essendo innanzitutto il figlio, è attento alla voce del Padre che parla non nella tempesta, ma nella brezza leggera. Significa non cedere all’opinione più conveniente o a quella che ci è più consona, ma mettersi perennemente in discussione, come ha fatto San Giuseppe, in ascolto della parola di Dio e del magistero, dei fatti e dei fenomeni culturali. Per non giudicare secondo il sentito dire e neanche in base a criteri puramente soggettivi. La questione centrale è se, dietro ai tanti problemi e agli aspetti positivi del nostro tempo, riusciamo a intercettare dove soffia lo Spirito, e a intuire che cosa sta preparando Dio sotto la cenere di questo mondo che passa.

Custodire la fiducia nelle persone anche se ti fanno soffrire o ti hanno tradito. Alleniamoci a credere che tutti possono cambiare, possono fare dei passi verso il bene, perché il Padre crede sempre nei propri figli.

Chiediamo queste grazie al Signore in questo tempo di Quaresima.

Mons. Marco Tasca

Arcivescovo di Genova

 

 Trascrizione non rivista dall’autore

18-02-2021
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